La memoria: la preziosa eredità del prof. Renato Bacci; a cura della dott.ssa Nara Pistolesi

Quando il giardino della memoria inizia a inaridire,

si accudiscono le ultime piante e le ultime rose rimaste

con un affetto ancora maggiore.

Per non farle avvizzire, le bagno e le accarezzo

dalla mattina alla sera:

ricordo, ricordo, in modo da non dimenticare”

Orhan Pamuk

            Questo bellissima citazione dello scrittore turco Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura nel 2006, apre l’ultimo libro del prof.  Renato Bacci, che ci ha lasciati lo scorso 13 Agosto dopo un lungo periodo di malattia. L’opera dal titolo “Attenti ai piccioni”, arricchita dalle foto di Damiano Dainelli, ripercorre la vita dell’autore negli anni ’50 – ’60 del secolo scorso, strettamente intrecciata con la vita della città  di Volterra, sullo sfondo degli eventi storico-sociali di quegli anni: una testimonianza di un legame profondo che il prof. Bacci ha sempre sentito con la sua città, di un forte e appassionato impegno civile, mai venuto meno nella sua vita, di attenzione alle persone che abitavano la città e la contraddistinguevano, di rapporti di amicizia vissuti intensamente. Il libro è testimonianza degli interessi e delle  passioni di un giovane fino agli studi universitari che hanno coinciso con gli eventi del ’68: questo è stato il  terreno su cui si è formato l’adulto che ha fatto dei propri interessi la vita di ogni giorno.

            L’impegno civile si è concretizzato  in una mai interrotta attività politica e culturale nell’amministrazione comunale di Volterra come assessore, nel Museo “Guarnacci”, nell’”Accademia dei Sepolti”, nella ASP “Santa Chiara” e in molte altre realtà della città. La passione per lo studio del mondo classico è stata alla base della sua attività di insegnante di Greco e Latino che si è svolta nel Liceo Classico “G. Carducci” di Volterra e poi il suo impegno di Preside: i suoi ex studenti ricordano la  passione per le discipline che insegnava, la profonda competenza, l’ autorevolezza, ma soprattutto l’attenzione allo sviluppo del pensiero critico nei ragazzi e nei giovani, il dialogo ed il confronto con loro sui temi di attualità, con profondo rispetto della loro personalità e delle loro idee. La medesima passione e la consapevolezza del valore profondo della cultura classica per il cittadino di oggi hanno animato fortemente  l’ ininterrotta battaglia per il mantenimento del Liceo Classico a Volterra. L’attività di insegnante e di uomo politico è stata sempre affiancata da uno studio continuo che si è espresso in numerose pubblicazioni.

            Molti suoi  studenti sono poi divenuti amici nella vita: lo testimoniano gli incontri conviviali nella sua casa con ex studenti e colleghi di varie generazioni. I profondi rapporti che il prof. Bacci ha intessuto nel tempo sono risultati evidenti nell’incontro per l’ultimo saluto, venerdì 16 Agosto in piazza XX Settembre a Volterra: ex studenti e colleghi, persone degli ambiti politico e culturale, semplici cittadini si sono stretti intorno alla famiglia, uniti al  Sindaco, Giacomo Santi, che ha portato l’ abbraccio affettuoso dell’intera comunità cittadina. Oltre al Sindaco, hanno ricordato i tratti distintivi della sua personalità e del suo impegno politico-culturale, l’ex sindaco di Volterra, Marco Buselli, e  Giovanni Salvini – due suoi ex studenti divenuti poi amici –  Piero Fiumi, Eleonora Raspi, ex assessore all’Istruzione e alla Cultura.

            L’intenso legame con Volterra che anima l’ultimo libro del prof. Bacci, trova una sintesi significativa nelle pagine finali: ”Tante volte ho pensato di andarmene e per brevi periodi l’ho pure fatto, ma poi non ce la fai a scappare, né lo senti giusto: Volterra ti sta nel sangue con valori più alti di quelli del colesterolo o del diabete nei vecchi. Volterra non  è dannunziana città di vento e di macigno come si tende a rappresentarla, è leopardiana: è quiete dopo la tempesta, è struggente naufragare nell’infinito dell’idillio, è il ricordo potente di vaghe stelle che sono sempre lì a rammentarti chi sei e chi non sei riuscito ad essere”. Vogliamo ricordare Renato con queste parole che interpretano ed esprimono il sentire di molte persone che vivono in questa città.

Nara Pistolesi

IL BLOG ATTONITO RICORDA, CON IMMUTATA STIMA ED AFFETTO, IL DOTT. PROF. RENATO BACCI, PREZIOSO COLLABORATORE ED EDITORE, CHE, SE PRESENTE, OVUNQUE ORA SIA, SI PORREBBE ANCORA COME GUIDA; scritti del dott. prof. Giacomo Brunetti e della dott. prof. Nara Pistolesi; a cura del dott. Piero Pistoia


A opinioniweb (Roberto Nicolini) è piaciuto questo post

Ricordo del dott. prof. Giacomo Brunetti in memoria del prof. Renato Bacci in odt:

E’ con costernazione e rammarico che apprendo la notizia della scomparsa di Renato Bacci, che mi colpisce potente e improvvisa come un temporale d’Agosto.

Renato Bacci, il professor Renato Bacci, è stato il mio insegnante di greco e latino e poi, una volta passato dall’altra parte della “barricata”, il mio diretto superiore, il Preside.

Una guida, insomma.

E così lo voglio ricordare.

Una persona dotata di un’ironia e di un’auto-ironia con le quali sapeva insaporire ogni variante della sua persona, ogni ruolo che era chiamato a svolgere.

Il suo, e oggi me ne rendo conto con una consapevolezza che solo il passare degli anni rende possibile, era uno dei modi più efficaci di far arrivare un messaggio, di raccontare qualcosa: di insegnare. A lezione noi ascoltavamo, ridevamo, qualche volta si tremava anche, ma il più delle volte era un piacere stare, come si diceva, “col Bacci”. Con lui che sapeva improvvisare la metrica dei cori delle tragedie!;che aveva sempre pronte la traduzione ufficiale e tutte le sue varianti dei classici delle nostre lingue antenate.

Renato Bacci sapeva tramandare il bello della conoscenza, facendo quasi scomparire la fatica necessaria a raggiungerlo. Come dice il poeta nel X del Paradiso:

Or ti riman, lettor, sovra ‘l tuo banco,

dietro pensando a ciò che si preliba,

s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.

Grazie Renato!

Giacomo Brunetti

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La memoria: la preziosa eredità del prof. Renato Bacci; scritto della dott.ssa Nara Pistolesi

Quando il giardino della memoria inizia a inaridire,

si accudiscono le ultime piante e le ultime rose rimaste

con un affetto ancora maggiore.

Per non farle avvizzire, le bagno e le accarezzo

dalla mattina alla sera:

ricordo, ricordo, in modo da non dimenticare”

Orhan Pamuk

Questo bellissima citazione dello scrittore turco Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura nel 2006, apre l’ultimo libro del prof.  Renato Bacci, che ci ha lasciati lo scorso 13 Agosto dopo un lungo periodo di malattia. L’opera dal titolo “Attenti ai piccioni”, arricchita dalle foto di Damiano Dainelli, ripercorre la vita dell’autore negli anni ’50 – ’60 del secolo scorso, strettamente intrecciata con la vita della città  di Volterra, sullo sfondo degli eventi storico-sociali di quegli anni: una testimonianza di un legame profondo che il prof. Bacci ha sempre sentito con la sua città, di un forte e appassionato impegno civile, mai venuto meno nella sua vita, di attenzione alle persone che abitavano la città e la contraddistinguevano, di rapporti di amicizia vissuti intensamente. Il libro è testimonianza degli interessi e delle  passioni di un giovane fino agli studi universitari che hanno coinciso con gli eventi del ’68: questo è stato il  terreno su cui si è formato l’adulto che ha fatto dei propri interessi la vita di ogni giorno.

L’impegno civile si è concretizzato  in una mai interrotta attività politica e culturale nell’amministrazione comunale di Volterra come assessore, nel Museo “Guarnacci”, nell’”Accademia dei Sepolti”, nella ASP “Santa Chiara” e in molte altre realtà della città. La passione per lo studio del mondo classico è stata alla base della sua attività di insegnante di Greco e Latino che si è svolta nel Liceo Classico “G. Carducci” di Volterra e poi il suo impegno di Preside: i suoi ex studenti ricordano la  passione per le discipline che insegnava, la profonda competenza, l’ autorevolezza, ma soprattutto l’attenzione allo sviluppo del pensiero critico nei ragazzi e nei giovani, il dialogo ed il confronto con loro sui temi di attualità, con profondo rispetto della loro personalità e delle loro idee. La medesima passione e la consapevolezza del valore profondo della cultura classica per il cittadino di oggi hanno animato fortemente  l’ ininterrotta battaglia per il mantenimento del Liceo Classico a Volterra. L’attività di insegnante e di uomo politico è stata sempre affiancata da uno studio continuo che si è espresso in numerose pubblicazioni.

Molti suoi  studenti sono poi divenuti amici nella vita: lo testimoniano gli incontri conviviali nella sua casa con ex studenti e colleghi di varie generazioni. I profondi rapporti che il prof. Bacci ha intessuto nel tempo sono risultati evidenti nell’incontro per l’ultimo saluto, venerdì 16 Agosto in piazza XX Settembre a Volterra: ex studenti e colleghi, persone degli ambiti politico e culturale, semplici cittadini si sono stretti intorno alla famiglia, uniti al  Sindaco, Giacomo Santi, che ha portato l’ abbraccio affettuoso dell’intera comunità cittadina. Oltre al Sindaco, hanno ricordato i tratti distintivi della sua personalità e del suo impegno politico-culturale, l’ex sindaco di Volterra, Marco Buselli, e  Giovanni Salvini – due suoi ex studenti divenuti poi amici –  Piero Fiumi, Eleonora Raspi, ex assessore all’Istruzione e alla Cultura.

L’intenso legame con Volterra che anima l’ultimo libro del prof. Bacci, trova una sintesi significativa nelle pagine finali: ”Tante volte ho pensato di andarmene e per brevi periodi l’ho pure fatto, ma poi non ce la fai a scappare, né lo senti giusto: Volterra ti sta nel sangue con valori più alti di quelli del colesterolo o del diabete nei vecchi. Volterra non  è dannunziana città di vento e di macigno come si tende a rappresentarla, è leopardiana: è quiete dopo la tempesta, è struggente naufragare nell’infinito dell’idillio, è il ricordo potente di vaghe stelle che sono sempre lì a rammentarti chi sei e chi non sei riuscito ad essere”. Vogliamo ricordare Renato con queste parole che interpretano ed esprimono il sentire di molte persone che vivono in questa città.

Nara Pistolesi

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Per leggere sul blog gli articoli del prof. Renato Bacci cercarli con il suo nome. Altri interventi erano in programmazione, sugli Etruschi, ancora sulla linguistica applicata, sul mondo greco e romano, ecc., ma purtroppo si sono ‘volatilizzati’ con Lui.

DA CONTINUARE….

Commento alle poesie di MARIO LUZI “VOLA ALTA, PAROLA” ed “IL PIANTO SENTITO PIANGERE”, della dott.ssa Prof.ssa Nara Pistolesi

VOLA ALTA, PAROLA

Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami
nel buio della mente –
però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, sii
luce, non disabitata trasparenza…

La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?

(Mario Luzi)

Commento della prof.ssa   Nara  Pistolesi   Liceo classico Volterra

Mi è tornata alla memoria questa poesia ascoltando i poeti che hanno partecipato alla “Maratona poetica per Volterra” dal titolo significativo “La ferita, il volo”, organizzata all’interno di VolterraTeatro 2014, da un’idea dei poeti Alessandro Agostinelli e Roberto Veracini per dare voce alle riflessioni generate dalla frana che ha colpito le mura medievali della nostra città. Durante la serata le parole “poesia” , “parola” sono risuonate spesso accanto a “volo” “volare” – in tutte le sue forme – e a “speranza”, “vita”, “ferita”, “dolore”, “sofferenza”. Nella  poesia di M. Luzi, inserita nell’opera Per il battesimo dei nostri frammenti uscita nel 1985, alcune delle parole suddette ed il loro profondo significato vengono inscindibilmente legate ad esprimere il valore e la funzione della poesia  stessa.

Il poeta affida alla parola, quindi alla poesia, il compito di volare “alta”, aggettivo che rimanda al suo complesso significato latino che indica insieme  altezza e profondità;  subito dopo, infatti, si esorta la parola a crescere “in profondità”, toccando “nadir e zenith” della sua “significazione”, a lanciarsi con pari forza in alto e nel profondo. Solo questo slancio duplice permetterà alla ‘parola’ di mantenere il contatto con l’io, con “il caldo di me” ed essere, quindi, “luce” per chi scrive e per chi legge, non “disabitata trasparenza”, una bellezza priva dell’ ‘uomo’ e del suo calore.

In questo suo percorso verso l’alto e nella profondità dell’io e del mondo la ‘parola’ acquista una immensa capacità espressiva, può aspirare a divenire “luce” , secondo Luzi, in quanto si carica di calore umano, si fa memoria, dà voce all’ “anima”, dà voce alla “sofferenza”, è ‘vita’. La metafora della luce non implica lo svelamento di una verità che dia risposta agli interrogativi dell’animo umano, ma illumina la ‘verità’ insita nell’animo umano stesso: un insieme di speranza e di dolore,  di attese e di sofferenze. Gli interrogativi rimangono, come dimostra il verso finale: non solo quelli relativi alla vita stessa e al senso dell’esistenza vista nella sua complessità, ma anche quelli che indagano il valore profondo della ‘parola’. Questo valore, però, non può prescindere da un rapporto  con l’io, la sua ‘sofferenza’, la sua ‘anima’.

Significativo è l’inciso ai vv 3-4: “sogno”, apposizione di “parola”, potenzia ulteriormente il desiderio del poeta di riuscire a esprimere, a ‘chiamare fuori’ (“esclami”) con pienezza “la cosa” inscindibilmente unita al suo calore vitale. Il “sogno” si staglia nel “buio della mente” come una luce calda.

Mi viene in mente un altro testo, estremamente attuale,  tratto dalla medesima opera di  M. Luzi che dimostra  emblematicamente questa forza della poesia: Il pianto sentito piangere

.

Il pianto sentito piangere

                                       nella camera contigua

di notte

         nello strampalato albergo

                                               poi dovunque

                                                                   dovunque

                                                                            nel buio danubiano

                                                           e nel finimondo di colori

di ogni possibile orizzonte

                                        dilagando

                                                      oltre tutti i divisori

                                                                            delle epoche

                                                                            delle lingue

sentito bene sentito forte

                                    nel suo forte rintocco di eptacordio

e rimesso nel fodero di nebbia

                                               del sonno

e della non coscienza

                                      riposto nel buio nascondiglio

del sapere non voluto sapere

                                           fino a quando?-

Mario Luzi

 

La parola poetica, la versificazione, il ritmo esprimono con forza la sofferenza, il dolore dell’animo in cui si riflette la sofferenza del mondo. Anche in questo caso un’interrogativa chiude la poesia: il mistero della vita e del dolore rimangono, ma attraverso la poesia questo mistero emerge, acquista voce e diviene stimolo per la riflessione. Anche in questo testo mai si perde il rapporto tra la parola e la sua significazione, non c’è un minimo elemento che non sia essenziale all’espressione. Si potrebbe richiamare alla memoria il “sentire e meditare” alla base della poetica manzoniana che ritorna nella differenza che Saba individua tra la poesia di Manzoni e quella di D’Annunzio: nei versi del Manzoni c’è “la costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione” mentre D’Annunzio “si esagera o addirittura si finge passioni ed ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento”; quest’ultimo “si ubriaca per aumentarsi”, “l’altro è il più astemio e il più sobrio dei poeti italiani”.

Afferma il poeta Pierluigi Cappello:”Non esiste altro lessico se non il tuo in poesia; e quel lessico deve accordarsi con lo sguardo tuo proprio, deve intrecciarsi alla relazione che il tuo sguardo stabilisce con i tuoi sensi e che i tuoi sensi stabiliscono con il mondo, finché il lessico stesso, le parole stesse diventano relazione. Un intreccio da cui una forma di verità molto parziale, la tua, si sviluppa e cresce con il tuo respiro” (Questa libertà, RCS libri, Milano 2013, pg. 65).

La grande “maratona poetica” che ha animato la Pinacoteca di Volterra il 26 Luglio scorso ha veramente fatto emergere questa potenza della poesia. Attraverso una “cordata di corpi e parole” – come si afferma nella presentazione dell’evento – ha unito nadir e zenith: dalla profondità della ferita della terra che ha stimolato ad ascoltare “la ferita più profonda che ci portiamo dentro”, è spiccato il volo verso l’alto per ripartire con speranza e fiducia e “tornare a vedere meglio il mondo” e noi stessi.

Nara Pistolesi

LA POESIA “A SE STESSO” di Giacomo Leopardi: commenti ed intermezzi

Le immagini di questo post sono riprese da “Il Sillabario” N. 2- 1998

INTERMEZZI

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1) Sculture di Roberto Marmelli.

2) Commento allo scultore da parte del critico d’arte.

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marmell0001luglio0021Giacomo Leopardi dai “canti”

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Commento a ‘La trama’ di Jorge Luis Borges

Nel secondo cortile

la fontanella gocciola periodica

fatale come la morte di Cesare.

Entrambi fili della trama che abbraccia

il cerchio senza fine né principio,

l’àncora del Fenicio,

il primo lupo e il primo agnello,

l’ora della mia morte

e il teorema di Fermat.

Tale trama di ferro

gli storici la intuirono di un fuoco

che muore e nasce come la Fenice.

E’ il grande albero delle cause

e dei ramificati effetti:

ha nelle foglie Roma e la caldea

e ciò che vedono i volti di Giano.

L’universo è uno dei suoi nomi.

Nessuno lo ha mai visto

e nessun uomo può vedere altro.

 

 

Per vedere il commento del prof, Gherardini cliccare sotto

commento del prof. Gherardini

Per vedere il commento della prof.ssa Pistolesi cliccare sotto

latrama prof.ssa Pistolesi

LA POESIA di Guido Gozzano ed altro, Commenti dei docenti di Lisa Fedeli, Nara Pistolesi, Piero Pistoia, Gabriella Scarciglia, Francesco Gheradini; post aperto a più voci; da commentare la poesia aggiunta”Cocotte”

Testi rivisitati da ‘Il Sillabario’, n. 2  1999

Da commentare la poesia “Cocotte” riportata nel link seguente:

COCOTTE – E’ DA QUESTA POESIA DI G. GOZZANO CHE NASCE LA MITICA FRASE “NON AMO CHE LE ROSE CHE NON COLSI” _ IL MONDO DI ORSOSOGNANTE

Sono inseriti due intermezzi: “L’assenza di fondamenti”  di Varela e l'<<anyThing goes>> di Feyerabend.

Segue una pittura di Gabriella Scarciglia:

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SE VUOI LEGGERE PIU’ CHIARAMENTE IL TESTO DELLA POESIA E IL BREVE PENSIERO DI VARELA (‘Assenza di fondamenti’) IN PDF, CLICCA SU:

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COMMENTO DI LISA FEDELI

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COMMENTO  DI PIERO PISTOIA – SCARCIGLIA

Curriculum di piero pistoia:

PIERO PISTOIA CURRICULUMOK

ESPERIMENTO DI INTERPRETAZIONE DI UNA POESIA

PER VEDERE IL COMMENTO IN PDF DI PISTOIA-SCARCIGLIA IN MODO PIU’ CHIARO, CLICCARE SU:

gozzano_pistoia

altrimenti:

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N.B. – I tre riferimenti nel precedente commento rimandano al Sillabario cartaceo da cui sono stati enucleati, rivisitati e trasferiti in questo blog, cercando, per es.,  con la le parole “Enantiodromia” e “Fabbri”.

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COMMENTO GHERARDINI

PER VEDERE IL COMMENTO DI GHERARDINI e  il breve ‘anything goes’ di Feyerabend in pdf, in modo più chiaro, CLICCARE SU:

gozzano_gherardini

 

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Se vuoi leggere il commento della prof.ssa Nara Pistolesi clicca qui sotto:

 GUIDO_GOZZANO_COMMENTO_NARA_PISTOLESI_prima_versione_in_pdf

GOZZANO_La_via_del rifugio_N_PISTOLESI_seconda_versione_in_doc

GOZZANO_La_via_del rifugio_N_PISTOLESI_seconda_versione_in_pdf

COMMENTO ALLA POESIA “PAROLA” di S. Quasimodo; a cura di P. Fidanzi, F. Gherardini, N. Pistolesi, P. Pistoia

PAROLA

Tu ridi che per sillabe mi scarno
e curvo cieli e colli, azzurra siepe
a me d’intorno, e stormir d’olmi
e voci d’acque trepide;
che giovinezza inganno
con nuvole e colori
che la luce sprofonda.
Ti so. In te tutta smarrita
alza bellezza i seni,
s’incava ai lombi e un soave moto
s’allarga per il pube timoroso,
e ridiscende in armonia di forme
ai piedi belli con dieci conchiglie.
Ma se ti prendo, ecco:
parola tu pure mi sei e tristezza.

Salvatore Quasimodo

COMMENTO del Dott. PAOLO FIDANZI

Abbiamo una poesia “PAROLA” tratta da Oboe Sommerso, seconda raccolta quasimodiana che introduce un nuovo genere poetico, un ermetismo personale privato dell’ansia metafisica dell’ermetismo classico, un genere criptico, che deve essere intuito e indovinato fondato essenzialmente sulla poetica della parola. Dove la parola è tutto e si scava in essa e fuori di essa smuovendo sillabe, in un logorio faticoso della ricerca del ritmo, del tempo d’attesa, del significato profondo di una sovrapposizione fonetica a determinati mutamenti dello stato d’animo. Ma Quasimodo, spinto dalla forte valenza sociale del suo sentire quotidiano che porterà alle poesie di Giorno dopo Giorno, facendolo uscire, appunto, dall’ermetismo delle sue prime tre raccolte, ”Acque e terre, Oboe sommerso e Erato e Apollion, comincia a subire il peso della parola quasi subito: ”IL TUO DONO TREMENDO DI PAROLE SIGNORE SCONTO…., dice in Erato e Apollion. Ma ancor più sorprendente è trovare una prima incrinatura, lo spunto emergente di una abiura della poetica della parola, come dice Petrucciani, proprio nella nostra poesia “PAROLA”. Poichè pur avendo evocato la figura femminile, la donna, una bellissima donna nuda, con linee di una classica e tuttavia morbida scultura, avverte con una cadenza sconsolata, la pungente amarezza della “predestinazione nominalistica”: anche la donna si trasfigura in parola poetica, così come la natura e il divino e tutto ciò che il poeta tocca, ”re Mida sui generis”.

Personalmente al di là della forza e della suggestione che in me determina il primo verso non ho sentito particolare riscontro emotivo in questa poesia. Non a caso riflette più la necessità di una sintesi espressiva del poeta se non la sua incapacità ad essere compreso in quella che poi si manifesterà essere la sua più matura vocazione. Ovvero La sua indignazione contro le ingiustizie umane e la sua laica pietas per il mondo “creato.”, insieme alla sua potente fonte nostalgica che lo accompagnerà nell’intero percorso umano ed esistenziale.

Dott. Paolo Fidanzi

Commento alla poesia del prof.  Francesco Gherardini

Ermes , figlio di Zeus e Maia, è il dio del Mistero, esperto nell’uso della parola; padre del  logos (cfr.     PlatoneCratilo, 407e-408d ), indubbiamente padre della cosiddetta poesia ermetica: alleggerita di nessi e strutture grammaticali , condensata, chiusa, oscura, ambigua, indecifrabile, difficile da disserrare, votata alla ricerca della purezza e della bellezza formale; non necessariamente collegabile a qualcosa di reale , se non ad una realtà piuttosto labile composta di sospiri, sentimenti, pensieri, intuizioni, suggestioni, parole ; un genere di poesia che si presta a più interpretazioni , magari anche fortemente contrastanti, ma – io credo pirandellianamente – tutte egualmente vere. Chi legge prova un’emozione diversa in funzione della sua sensibilità e del suo grado di cultura; molto spesso il lettore costruisce più di quello che il poeta non voglia dire o indicare, finendo perfino per arricchire il testo.

Offro la mia interpretazione per così dire del tutto “istintiva”.

Questa lirica , tratta da Oboe sommerso si intitola “PAROLA”; stando all’etimologia, il termine, deriva probabilmente dal latino “PARABOLA” , un vocabolo che ha una straordinaria pregnanza , un grandissimo spettro di significati quali Similitudine, Comparazione, Insegnamento; soltanto molto tardi assume il significato di “voce qualsiasi esprimente un concetto” , sostituendosi al termine “verbum”.

Salvatore Quasimodo, un amante del mondo classico, ha pensato questo titolo , forse indispensabile per ricercare il senso occultato di versi che preannunciano una similitudine, che stabiliscono l’ accostamento Poesia=Parola=Donna. Proprio la fanciulla , qui descritta, pare la trasfigurazione della poesia (o viceversa) . La poesia come la seducente giovinetta è attraente, richiede amore, passione e dedizione, e alla fine può rivelarsi evanescente, leggerissima, privata della capacità di cogliere la realtà oggettiva fuori di noi così come la fanciulla resta “smarrita in sé” o svanisce.

Il poeta gioca certamente anche sulla pluralità di significati del vocabolo “parola”; nella vasta gamma che va da “ voce” a “insegnamento” , forse anche nel senso di “parabola evangelica”. Qualcosa da comprendere e trasmettere. Quasimodo si rivolge direttamente ad una giovane donna, forse la “fanciulletta” bella e pudica, amata nell’ infanzia , morta precocemente, a lei che conosce le sue fatiche letterarie e che sorride/ride dei suoi sforzi , dei suoi tentativi di “scarnificare”, di togliere il superfluo alla parola e di costruire attorno a sé un mondo ideale, piegato ,”curvato”, da lui stesso alle sue proprie esigenze; un mondo virtuale ; in definitiva un meraviglioso inganno che la luce (ossia la realtà/ la verità cfr. Apocalisse, Giov.3,19 ) fa sprofondare, distrugge.

Questa fanciulla sorride al nostro autore/ anzi ride di lui, delle sue fatiche; crede e non crede al suo estro poetico, alla sua fame di emozioni e di rappresentazioni, alla sua vis poetica. Ma sa bene che la poesia lo attira irresistibilmente così come del resto fa lei, che lo affascina con la sua bellezza carnale, i suoi seni turgidi, le sue movenze timorose e sensuali , l’armonia delle sue forme. [Il linguaggio si fa assai allusivo e simbolico]. Ma alla fine anche lei, alla prova dei fatti (quando ti prendo) si rivela una costruzione sui generis, una parola, un mero insieme di consonanti e vocali, di pensieri e di suoni (flatus vocis) e ciò genera e rende ancora più amara la tristezza, perché il poeta non riesce a trovare la concretezza, a conoscere la realtà e a darle un senso.

Il poeta siciliano non istituisce alcuna effettiva relazione col mondo esterno, come avviene in altre raccolte. L’ambiente è indeterminato, collocato in un tempo indefinito, solo apparentemente reale (i colli, la siepe, gli olmi, l’acqua), in realtà impalpabile, fatto di suoni e di colori che affondano nella luce. Oltre alla donna e al poeta, l’unico essere vivente è una pianta, l’olmo; forse una scelta casuale, forse un richiamo voluto al fatto che l’olmo nel linguaggio magico,esoterico, simbolizza le aspirazioni e l’intuizione interiore. Del resto nelle piante Quasimodo trasferisce le sue emozioni, ad esse attribuisce i suoi propri sentimenti; gli olmi che stormiscono rivelano la sua ansiosa ricerca di qualcosa al di là del mondo fenomenico e le acque trepide personificano la sua agitazione nervosa.

Poniamo attenzione ai verbi che usa il poeta .

Nella prima strofa adopera Mi scarno ( scarnifico, riduco all’osso, tolgo tutto ciò che è esteriore, superfluo abbellimento, orpello) , Curvo (piego alla mia volontà, ai miei desideri anche la natura naturans trepidante, partecipe, che mi circonda), Inganno ( mi prendo gioco della giovinezza, dell’inesperienza tramite le tinte -nuvole e colori- del dolore e della gioia che la ragione-la luce- si incarica di far sprofondare, di distruggere, di ridurre a routine, a banalità ). Essi spiegano il suo lavorio intellettuale, più o meno velleitario alla luce dell’atteggiamento ironico della ragazza. Nella seconda strofa seguono verbi finemente descrittivi del corpo femminile e della sua postura ( s’incava, s’allarga, ridiscende) simili a quelli che uno storico dell’arte utilizzerebbe per tratteggiare minuziosamente il panneggio e l’ atteggiamento di una statua greca.

Con quel Ti so premesso al primo verso della seconda strofa il poeta mostra di (credere di ) conoscere a fondo e di saper apprezzare la sua interlocutrice, ma con ti prendo si passa fin troppo bruscamente dall’immagine che si pensava reale alla realtà “effettuale” e il sogno svanisce senza tante spiegazioni. La bella donna si riduce a parola; flatus vocis?!

Allora che cosa potrà volerci comunicare con questa “parola”/ “parabola”? Forse Quasimodo ci invita a capire che1) l’uomo è condannato a vivere, senza riuscire a sfuggire alla disintegrazione dei suoi sogni che 2) la solitudine e la tristezza sono le sue vere compagne nella vita. Una conclusione che marca indubbiamente un fortissimo contrasto con l’immagine preziosa, accattivante e felice, gioiosa ed eccitante della fanciulla che avrebbe meritato un epilogo meno pessimistico.

Prof  Francesco  Gherardini

Commento alla poesia “Parola” della prof.ssa Nara Pistolesi
Una parola-chiave apre e chiude il testo: “parola”, presente nel titolo e nell’ultimo verso e, chiaramente, fonte dell’ispirazione del poeta. La ‘parola’ è la poesia stessa e attraverso il testo sembra delinearsi il processo della creazione poetica dolcemente fuso con un’esperienza di vita profonda che può essere l’esperienza d’amore, ma rimane indeterminata. Questo percorso è scandito da tre fasi coincidenti con le strofe che vanno diminuendo gradualmente la loro lunghezza fino ad arrivare al distico finale, culmine del processo.

Di fronte ad un ‘tu’ che ride, emerge lo sforzo della creazione poetica (“per sillabe mi scarno”), la ricerca di parole e ritmi che sappiano esprimere l’io attraverso colori, suoni della natura. Tra l’io e il ‘tu’ sembra esserci lontananza, velata forse da una certa ironia (“Tu ridi”). Il “Ti so” che apre la seconda strofa indica la conoscenza profonda; il ‘sapere’ latino ha ritrovato qui il suo significato pieno: sento il tuo sapore, il tuo odore, gusto la tua bellezza e la tua armonia. Le immagini percorrono il corpo femminile cogliendo in particolar modo “l’armonia di forme”: alla ‘conoscenza’ della donna si può accostare la conoscenza, la percezione del ‘gusto’ della parola pura , secondo la poesia ermetica, la parola che sia essa stessa armonia e in quanto tale possa esprimere l’armonia della natura. “Ma se ti prendo”: ecco il momento del possesso in cui l’esperienza di vita e la parola sembrano unirsi profondamente, ma questa unione genera “tristezza”. E’ difficile intuire il perché di questo stato d’animo: forse la percezione dell’immensità dell’esperienza del possesso, forse la paura di perdere ciò che si è raggiunto con tanto sforzo, forse l’immagine posseduta appartiene al passato ed il suo possesso avvenuto attraverso la memoria genera tristezza malinconica, rimpianto.
Quest’ultima parola, posta in clausola e a chiusura della poesia, – per questo sicuramente importante per il poeta – ci può dare una chiave di lettura forse più precisa. L’immagine femminile si affaccia alla memoria, inizialmente distante. L’io poetico si sforza di raggiungerla attraverso la “parola”. Il graduale recupero del ‘sapore’ della donna apre la strada alla possibilità di cogliere la parola che sappia esprimere la sua bellezza e la sua armonia. Il possesso pieno del ricordo e quindi dell’immagine si trasforma in poesia e nel momento della pienezza del possesso la tristezza legata al rimpianto domina la pagina.
“La parola, come l’ultimo stadio d’una lunga e indefinita operazione d’avvicinamento … presa in una miracolosa trasparenza di tutte le variazioni, infine come sede generale del sentimento. La parola ancora come un’eco da suscitare, da saper suscitare”: così Carlo Bo interpreta in modo profondo il significato della ‘parola’ nella poesia di Quasimodo, nel saggio “Condizione di Quasimodo” (in Letteratura come vita , Milano 1994). Egli stesso definì la sua idea di letteratura nel 1938 con l’espressione “Letteratura come vita”: letteratura e vita sono “tutt’e due, e in egual misura, strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi…”; tale concezione è stata considerata fondamentale per chiarire l’humus alla base della poesia cosiddetta ‘ermetica’ e si comprende così la capacità di questo critico di cogliere l’essenza della poesia di Quasimodo, in esame, scritta pressoché negli stessi anni. Ma la riflessione sull’importanza del rapporto profondo fra letteratura e vita, fra la parola e la vita va oltre l’esperienza poetica ‘ermetica’: mi vengono in mente due bellissime poesie rispettivamente all’inizio e alla fine del secolo scorso, che esprimono in modo esplicito l’esigenza profonda del legame inscindibile tra la parola e la vita interiore del poeta stesso, quel legame che nella poesia di Quasimodo emerge attraverso l’espressione del processo stesso della creazione poetica.

Commiato (da L’Allegria)

Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso

G. Ungaretti (Locvizza il 2 ottobre 1916)

 

M. Luzi, Vola alta, parola (da Per il battesimo dei nostri frammenti, 1985)

Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami
nel buio della mente –
però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, sii
luce, non disabitata trasparenza…

La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?

(Prof.ssa Nara Pistolesi)

COMMENTO ALLA POESIA DI QUASIMODO “PAROLA” (anonimo)

Il poeta con i versi riesce a trasformare gli “oggetti” della Natura secondo i suoi desideri, trasferendoli in una dimensione magica, ma da lui fruibile e quindi per lui reale. Sembra spiegare in che senso si dice che la poesia trasforma il mondo naturale e umano, anche se in modo diverso e, a mio avviso, forse più potente della scienza, per la sua valenza soggettiva che può agire con piena libertà nel complesso (“curvo cieli e colli”, “giovinezza inganno” ecc.). E non è neppure vero che questi mondi di sogno non scambino energia col mondo reale!
Sembra che questo processo poetico del trasformare si avvicini, a diversi livelli, al balbettare di sillabe nei riti di maghi antichi, al bisbigliare in lingue sconosciute dei mistici medioevali invasi di Spirito durante il miracolo, alle antiche “conte” dei bimbi per disturbare il caso, alle speranze degli alchimisti, o, in definitiva a qualche processo noumenico che “non si può dire”, pescato nel vasto e tumultuoso oceano dell’irrazionale che sbatte l’isoletta razionale del grande logico Ludwig Witghenstein ( Tractatus Logico-Philosophicus).
“Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” recita l’ultima proposizione del Tractatus, la numero 7000. Ecco la mia parafrasi libera, difforme e volutamente provocatoria.

Tu ridi, ma io con la mia retorica iperbolica, i miei costrutti sintattici e impossibili neologismi (“per sillabe mi scarno”), piego cieli e colli come voglio, trasformo in azzurro siepi a me intorno, e i rumori della natura in dolci armonie. Tu ridi, ma io posso ingannare anche giovinezza con nuvole e colori dove la luce si perde e intimamente si confonde fornendo energia ai corpi umani. Ed è per questo e perché “ti so” (conosco i tuoi punti deboli), posso trasformare anche te, perplessa e timorosa, col potere della bellezza che plasma, in una splendida, dolce, armonica e voluttuosa Venere greca, da un’oscura sirena (forse una specie di “cozza” dai seni pendenti, dai lombi prominenti, dal pube spelacchiato…?) in una stupenda femmina umana che mantiene ancora dieci conchiglie ai piedi belli (forse residui madreperla di squame della coda?). Ma se ritorno, dallo scarnarmi per sillabe, alla parola, ti guardo al lume della ragione, “ti prendo” insomma, e mi ridiventi un triste racconto come eri. Che senso avrebbe “trasformare” la ragazza se non ne aveva bisogno? Il ‘denso’ cappello al commento a questa poesia del prof. Gherardini chiarisce come la nozione del vocabolo ‘PAROLA’ sia polisemica, possa cioè acquisire significati diversi, anche profondi, nei diversi autori, conducendo a possibili diverse interpretazioni.

(anonimo, nei posts di questo Blog, corrisponde a Piero Pistoia)