COMMENTO ALLA POESIA “LA SIEPE” di Giovanni Pascoli, del dott. prof. Francesco Gherardini

NOTE DEL COORDINATORE piero pistoia

Data la ‘densità’ di questa poesia pascoliana, la rilevanza del commento e il modo alla ‘robinson’ con cui fu introdotto la prima volta, lo riproponiamo più ordinato in pdf.

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COMMENTI ALLA POESIA ‘LA MIA SERA’ di Giovanni Pascoli, del dott. prof. Francesco Gherardini; post aperto

COMMENTO ALLA POESIA ‘LA MIA SERA’ di Giovanni Pascoli

del Dott. Prof. Francesco Gherardini

 

 

Clicca sulle parole ‘calde’ per vedere l’articolo di Gheradini:

LA MIA SERA di Giovanni Pascolix in OpenOffice

LA MIA SERA di Giovanni Pascolix  in Pdf

 

LA MIA SERA di Giovanni Pascoli

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.
E’, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io … che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don … Don … E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra …
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era …
sentivo mia madre … poi nulla …
sul far della sera.

L’anno 1900 1 si aprì a Gennaio con uno screzio tra Pascoli e D’Annunzio. Quest’ultimo aveva da poco terminato di scrivere “Il Fuoco” (dopo mesi di indefesso lavoro ) e aveva ricevuto pubbliche lodi dal Pascoli. Si era cimentato successivamente nel commento all’ VIII canto dell’ Inferno, ma stavolta Pascoli aveva scritto di lui all’amico Gargano che “ a proposito di Filippo Argenti ripeteva le solite stupidaggini, dimostrando di non aver neppure letto quello che lui aveva scritto nel “Convito” e concludeva acido : ”O che le sue frasche gli sembrano più vistose del pensiero di Dante?”. Una lettera di un certo Angiolino Orvieto sulla Caccia, comparsa sul Marzocco, completò l’opera; fu fraintesa da Pascoli, che reagì in maniera piccata (e con maligne allusioni verso il Vate abruzzese). D’Annunzio replicò con una lettera, “insolente e triviale”, accusando il poeta romagnolo di essere “una donnetta inacidita e pettegola … con il gusto di rimanere su la ciambella, di centellinare il fiasco e di curare la stitichezza del suo cagnolino”. 2

L’anno proseguì a Marzo con la sesta medaglia d’oro conquistata dal poeta romagnolo al Premio Amsterdam, la composizione dell’Inno alla Sicilia, la stampa a Giugno del voluminoso “Sotto il velame” seguita da notevole successo di vendite e di critica. A fine Luglio il suo cuore fu ferito dall’uccisione di Re Umberto e compose “Al re Umberto” (Nel Mondo di grande c’è il Male!); ad Agosto ebbe qualche incomprensione con l’Autorità ecclesiastica, poi trascorse le ferie a Castelvecchio, ebbe le visite dei numerosi amici ed estimatori; questo periodo fu caratterizzato dal disappunto per quanto andava male il matrimonio della sorella Ida (Du, Dudin), ma anche dalla vita scherzosa e dall’ingenua allegria dei contadini. Ad Ottobre finalmente si tirano le somme; Zvanì scrive all’amico Caselli :”Sono pieno di tribolazioni! Ne ho guasti i sogni, caro amico! Mi sfogherò scrivendo oggi La mia sera, un innetto molto melanconico

Ecco ricostruito l’antefatto della composizione di questa poesia, scelta da me perché presenta tanti aspetti costruttivi e molti temi della poesia di Pascoli.

L’innetto, divulgato per la prima volta per le nozze di Margherita, figlia del conte G. Codronchi Angeli, fu pubblicato su “ Il Marzocco” a fine 1900 e inserito nei “Canti di Castelvecchio” nel 1903, consta di cinque strofe (le prime tre generalmente definite come “descrittive”, in realtà cariche di significati reconditi e di simboli, le seconde due “personali” di otto versi ciascuna (sette novenari e l’ultimo senario), chiusi sempre dal termine “sera”, con rima alternata ABABCDCD; vi sono richiamati fenomeni aerei (tempesta, bufera, umidità, lampi, scoppi, fulmini, nube, cirri) e terrestri (campi, rivo), animali (rondini, nidi, ranelle), piante (pioppi), suoni (singulto, canti di culla, gre gre); c’è una vera e propria ridondanza di aggettivi tra loro contrastanti/dissonanti (tacite, breve, tremule, leggiera, tenero, vivo, allegre, monotono, cupo, aspra, dolce, umida, infinita, canoro, fragili, stanco, nera, rosa, ultima, serena, garrula, limpida, azzurra) ed una straordinaria abbondanza di figure retoriche: allegoria (sera – generale), antitesi (finita-infinita), onomatopee (gre gre, don..don..), ossimori (dolce singulto, tenebra azzurra), sineddoche/metonimia (nidi per rondinotti), assonanza (cupo tumulto), climax (cantano, sussurrano, bisbigliano), allitterazione (cirri di porpora e d’oro), sinestesia (fulmini fragili), analogie (suono campane, voci, ninna nanna).

La prima strofa serve a contestualizzare il tema; i lampi squarciano il buio, aiutano a far luce, 3 rischiarano per un brevissimo arco di tempo (fulmini fragili 4) il mondo vero, quello nascosto ”sotto il velame”, quello che si cela dietro a ciò che noi, come i prigionieri della caverna di Platone, confondendoci, chiamiamo realtà; fanno affiorare l’inconscio, ossia qualcosa che non si può affrontare con la sola Ragione. Alla fine però arrivano comunque le stelle. Esse rappresentano l’eternità, la luce più duratura, le più alte aspirazioni umane, tracciano la nostra via, ci guidano verso una meta. 5 L’atmosfera è ferma, rotta soltanto dal gracidare delle rane; un suono gioioso 6, legato al cessato pericolo e alla speranza che non si ripresenti la bufera, accompagnato dal singhiozzo “dolce” del rivo … che fa pendant con la “gioia leggiera” delle “tremule foglie dei pioppi”. 7 Evidentemente la Natura si comporta come una persona che è stata male, ha pianto e singhiozzato a lungo e a poco a poco, per quanto ancora molto scossa (tremule/tremore), si calma e si rasserena.

Nella strofa successiva protagonista è il cielo, che qui simboleggia la vita stessa del Poeta e della sua famiglia; è tenero e vivo (questa non è certo una descrizione naturalistica!) perché provato dalle disgrazie e da un dolore infinito, continuo, mai sopito, da una ferita mai rimarginata e rimarginabile. In questo cielo devono necessariamente comparire le stelle: deve esserci una svolta. Pascoli scriveva un anno dopo all’amico Alfredo Caselli: “Caro amico del mio tramonto ! Ma il tramonto sarà, spero, luminoso più di un’alba. Leggi La mia sera.” 8

La parola SERA chiude ogni strofa, accompagnato sempre da un’aggettivazione diversa. E’ umida: evidentemente un richiamo al pianto, al dolore che resta nell’aria dopo la bufera, all’ elaborazione mai compiuta di troppi lutti. E’ limpida: il Poeta vede finalmente come stanno le cose, come va il mondo, che cos’è ciò che lo attende; la vita è questa, il tempo prosegue la sua corsa, mentre continua –nonostante tutto – a pulsare la vita, almeno quella degli altri. E’ ultima: 9 coincide con la “compieta”, l’ultimo momento di  preghiera della giornata, anche nei collegi degli Scolopi, l’ora che viene dopo il vespro e che comincia con il saluto iniziale “O Dio vieni a salvarmi”. E’ il momento della riflessione, della meditazione, dell’esame di coscienza per prepararsi …10 alla “fatal quiete” di foscoliana memoria?

Nelle tre strofe successive ritornano le rondini e il nido, un universo caro al Poeta, un mondo gremito di voci e di “stridi”, dove il nido – distrutto e da lui ricostruito con Ida e Mariù – rappresenta una sorta di “paradiso perduto”, di struttura sociale ottimale, all’interno della quale normalmente tutto dovrebbe girare attorno alla figura paterna. La tempesta finisce per placarsi e per essere richiamata dall’eco di un rivo monotono e canoro: una sorta di rumore di fondo ormai stabile, che continuamente ricorda ciò che è accaduto. Nel cielo rotto dai fulmini e ora terso si sono formati cirri di porpora e d’oro. Immagini di un tramonto stupendo, dai colori smaglianti11 . O piuttosto il poeta adombra un’immagine di Ida? In effetti per cirri si intendono non sole le nubi bianche, ma anche i riccioli dei capelli e quelli di Ida erano inanellati e biondi. La nube più nera sta cambiando colore, sta diventando rosea: un po’ di ottimismo; o una situazione meno assillante proprio per Ida?12

I nidi ossia tutte le famiglie – afferma il Poeta – anche se poco, hanno avuto qualcosa, così i rondinotti/figli chiassosi e spensierati possono partecipare alla cena modesta con vivacità. Io no. In effetti Pascoli si lamentò a lungo, per tutta la vita, di non avere ottenuto ciò che a suo giudizio gli spettava (cfr. Maria Pascoli cit.). Che voli che gridi fa venire in mente che speranze che cori di Leopardi, richiama alla mente un’immagine andata di tempi comunque meno tristi. Il suono delle campane del Vespro interrompe questa rappresentazione un po’ più limpida (azzurra, serena) e lo richiama a pensieri più elevati. In realtà lo precipita nel grembo materno; questi ultimi versi ripropongono la figura martellante, assillante della madre e, per così dire, della tragica incancellabile foto di gruppo 13. Lo stesso suono delle campane è cupo (don..don..) e per nulla suadente (dormi …dormi…) come dovrebbe essere; lascia pensare alla morte.14

La mia sera è una lirica delle meno conosciute di Pascoli, solo apparentemente descrittiva e armoniosa, ricca di alcuni simboli già noti (cfr. Barberi Squarotti : i lampi, le stelle, le rondini, il nido ) , costruita con una climax adeguata e con una competenza tecnica – oserei dire – ostentata, con i colori appropriati. I forti contrasti (lampi-stelle, cupo tumulto – dolce singulto, infinita tempesta – rivo canoro, nube nera – nube rosa) creano un senso di turbamento, di pena e di mistero, alimentano l’attesa ansiosa per qualcosa che deve accadere e che accadrà (l’arrivo delle stelle e soprattutto della “ sera”, termine ossessivamente ripetuto ogni fine strofa), il rimpianto per un mondo lontano, puro, ricco di affetti, ormai definitivamente dissolto (canti di culla), ma ben vivo e fin troppo presente nella mente del Poeta. Si può intuire da subito anche il punto di vista con cui Pascoli guarda al mondo, a se stesso e alla sua famiglia; l’accostamento tra il suo terribile dramma familiare e la vita seppur povera degli altri (la fame del povero giorno prolunga la garrula cena); tra “l’aspra bufera” e “l’infinita tempesta” che hanno caratterizzato tutta la sua vita familiare e in qualche modo la pace altrui .

Tutta la poesia è un richiamo continuo al dolore personale di Giovannino, come lo chiama l’inseparabile sorella Maria, un dolore indomabile, che ha “stancato” la sua esistenza; dominata da un pensiero fisso, bloccato sulla propria sofferenza individuale e familiare; un rimuginare che pare concludersi con l’accettazione rassegnata della morte come prospettiva concreta e forse vicina. Nell’attesa di questo momento, la disperazione pare temperata soltanto dal ricordo dell’infanzia (la culla, la mamma, la ninna nanna) quando tutto intorno a lui appariva come tenerezza e dedizione. A rompere il vaso di Pandora, a sprigionare tutti i mali – come sappiamo – furono l’assassinio del padre e poi la lunga catena di lutti familiari 15; “il turbine che percosse, disperse, distrusse la nostra famiglia” come scrive la sorella Mariù .16

Con gli occhi di bimbo Pascoli ricostruisce il mondo agreste che lo circonda, rievoca i fenomeni naturali, ciò che fin da bambino lo ha impressionato, forse affascinato (il temporale, la bufera, i lampi e di seguito “la quiete dopo la tempesta”: il gracidare delle piccole rane, il tremolio delle foglie dei pioppi, il volo famelico delle rondini alla ricerca di insetti nell’aria) e lo individua come chiave interpretativa della sua storia personale, quella che la Natura ha sempre conosciuto. Aspetta la morte, la sente vicina, la desidera ?!

Scrive Hegel nell’Estetica : “La bellezza artistica si manifesta al senso, alla sensazione, all’intuizione, alla immaginazione, ha un ambito diverso da quello […] della tetra interiorità del pensare” e allora cerchiamo di approfondire in particolare gli aspetti psicologici, nascosti, che emergono da questo testo . Occorrerebbe in primo luogo saperne di più sull’Autore, conoscere bene la sua biografia per ricostruire la sua psicologia. Lo stesso Pascoli scrive nella prefazione a Sotto il Velame: ” Ci sono alcuni che sdegnano questo tipo di indagini…La lucernina può (invece) rivelare qualche meandro nuovo, qualche nuovo abisso, qualche improvviso simulacro, qualche scritta ignorata”. Secondo me, nel caso specifico di questa poesia, la conoscenza –anche minuta – della biografia dell’Autore è sicuramente di grande utilità, può aiutarci – per così dire – a capire meglio l’oggetto spirituale che la poesia ingloba. Del resto sempre Hegel scrive in proposito: “ La poesia è in grado di riunire sotto una forma di interiorità l’interno soggettivo del Poeta con i particolari e i dettagli dell’esistenza esterna”.

La mia sera dunque è una poesia nient’affatto suggerita da un giorno particolarmente piovoso, ma è una riflessione sulla intera sua vita; al termine della quale sostanzialmente Giovanni Agostino Placido Pascoli esprime il desiderio “in questo atomo opaco del male” (X Agosto) di ottenere un po’ di pace dopo troppi lutti familiari . C’è una orchestrazione di fondo percepibile: è data dal linguaggio del “fanciullino”, quello del mondo dell’infanzia, fatto di colori e di rumori, della piena e immediata adesione con la Natura (materiale, vegetale, animale, umana), che sa tutto e resta indifferente, passando dalla tenebra all’azzurro alla porpora e all’oro. Sembra essere presente in quest’opera la figura del “perturbante”, una delle categorie estetiche del Novecento17 [Freud, Das Hunheimliche, 1919; Antony Vidler Il perturbante dell’architettura 2006]: qualcosa di “spaventoso” che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare; qualcosa che genera quotidianamente inquietudine, angoscia, disagio e produce “il male di vivere”. Una sorta di “spaesamento” che deriva dall’incapacità di stabilire quanto un “oggetto” sia jn effetti vivo e reale; nel nostro caso quanto siano ancora vivi per il poeta e la sua stessa esistenza concreta di ogni giorno i suoi morti. Questa situazione in psicologia viene definita anche come “dissonanza cognitiva”; è la condizione del “non raccapezzarsi”, che porta a voler ripartire da zero e in Pascoli caratterizzata proprio dal riaffiorare del desiderio di tornare nel grembo materno.

Proprio perché si è compreso presto che le poesie di Pascoli non potevano essere semplici bozzetti, i critici letterari e gli psicologi si sono cimentati nell’opera di scavo nel profondo e nell’interpretazione della sua poesia.

Elio Gioanola (Sentimenti filiali di un parricida in Psicanalisi,Ermeneutica, Letteratura 1991), avverte opportunamente che gli aspetti psicopatologici degli Autori non sono mere curiosità biografiche, ma stanno in profonda relazione con i contenuti delle loro opere. In effetti ci sono aspetti della vita dei poeti che vengono ignorati o volutamente trascurati dai curatori delle Antologie, per non sciupare l’ “immaginetta” e potersi così inventare personaggi fuori dal tempo18. Gioanola rammenta che Pascoli doveva far fronte agli attacchi di malinconia, ai complessi di inferiorità, alle ombre paranoidi che gli facevano vedere in tutti i colleghi dei nemici; accenna alle delusioni politiche, ai mesi di carcere, all’assillo della povertà. Lo conferma del resto la sorella Maria, la quale ricorda come Giovanni Pascoli cercasse di dominare questi nefasti stati d’animo col vino. Gioanola suppone che Pascoli in più si sentisse – per così dire- “parricida” 19, avendo odiato il padre per averlo mandato in collegio a sette anni e che abbia cercato in tutte le sue opere, evocandolo, di liberarsi dal suo senso di colpa.

Cesare Garboli (Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, Einaudi 1990) oltre a mettere in luce le doti di un poeta tanto musicale e struggente, reso felice dal gioco linguistico, accenna ad una storia incestuosa, ad un legame inquietante soprattutto tra Giovannino e Ida20, per altro non suffragato né da testimonianze né da prove; anche Valentino Andreoli (I segreti di casa Pascoli) dà credito all’idea di un legame ambiguo tra i tre fratelli e parla di un rapporto particolare di Giovanni con Ida, fatto di amore e di attrazione fisica; Pascoli la rappresenta sempre nella sua carnalità; da psicologo e psichiatra ne deduce che Ida è nient’altro che la proiezione della madre tanto adorata, mentre il poeta stesso si immedesima nel padre morto. Andreoli parla quindi di personalità con caratteristiche infantili, con un Edipo non risolto, una forte fragilità emotiva e una dipendenza dall’alcool che lo porterà alla morte.

Quando scrisse La mia sera Pascoli aveva 48 anni, a 57 morì forse di cirrosi. Sì, forse si era sentito in colpa per tutta la vita per essere sopravvissuto ai suoi, per non avere avuto il successo economico cui aspirava, per non essere veramente riuscito a farsi benvolere e sostenere dal suo maestro Carducci e infine per non essere neppure riuscito ad avere un buon rapporto con tanta gente semplice di Castelvecchio. Ha sempre temuto il futuro e rimpianto il grembo materno.

In conclusione potremmo dire che il Pascoli non è il poeta delle piccole cose e delle brillanti descrizioni naturalistiche, per dirla con Sanguineti è piuttosto il poeta che “sprofonda all’indietro, che passa dalla Cultura alla Natura”, dal mondo della vichiana Civiltà dispiegata a quelli del Senso e della Fantasia ; è il poeta della regressione al “materno originario”, un luogo idealizzato, purificato e artificioso, non realistico, nel tentativo di sfuggire ad una realtà insoddisfacente, che non riesce a controllare e che vorrebbe cancellare, e ad un passato che riemerge sempre ossessivo con le stesse immagini e gli stessi simboli.

1Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, memorie curate da Augusto Vicinelli

2Si rappacificarono soltanto nel 1903.

3Gli scoppi: come non accostarli alla gragnola di disgrazie che colpirono Pascoli dopo la morte del padre?

4Interessante il dato onomatopeico frag/frang come nell’aggettivo fragoroso

5Alcuni commentatori lasciano trasparire finanche un significato esoterico in questi versi, ricordando che Giovanni Pascoli fu un “fratello massone” della loggia Rizzoli di Bologna: le stelle richiamerebbero l’idea di una Provvidenza divina che finalmente e silenziosamente fa giustizia e salda tutti i conti in sospeso.

6Nei “Canti di Castelvecchio” il Poeta dedica una lirica intera alle rane ( Io sento gracchiare le rane dai botri dell’acqua piovana nell’umida serenità ): il gracidare delle rane è paragonato allo strepito di un “treno nero”, a qualcosa di funebre

7Come non notare il gioco delle “i” e delle “e” e delle consonanti vibranti (tr) che trasmettono la sensazione del fruscio.

8il 29 Ottobre 1901

9Pascoli trascorse nove anni della sua fanciullezza nel collegio degli Scolopi ad Urbino; ne avrà pure risentito nella sua formazione spirituale. Convenzionalmente nella Liturgia delle ore e del Breviario una giornata si divide in cinque parti : alba (0-5),  mattino (5-9) ,giorno (9-17),  sera (17-21),notte (21-24); l’ultima sera è dunque il periodo di tempo prima che faccia notte

10“Ti prego di pensare a chi sta peggio, a chi qualche volta, per esempio a Messina, levandosi dal letto, stanco, addolorato, con la testa vacillante, si augura spesso fin dalla mattina di morire “ (Maria Pascoli 1903 cit.)

11Sono i cosiddetti colori caldi. La porpora rappresenta la regalità e l’energia, l’oro la luce solare, il benessere, la saggezza

12“Io credevo la novità dell’Ida come una specie di sfacelo della mia piccola famigliola” 1903; in una lettera a Berti del 25 Maggio 1900 scrive: “vediamo che s’apre il tempo sereno, il tempo del mietere…Il mio grano s’è maturato molto lentamente”

13( Il giorno dei morti : i figli morti stanno avvinti al padre / invendicato. Siede in una tomba/ io vedo, io vedo in mezzo a lor mia madre……in questa notte che non mai declina/orate requie, o figli morti, ai vivi ..) .

14“E sono anche qui campane e campani e campanelle e campanelli che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto; specialmente a morto. Troppo? Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico.” Dalla Prefazione ai Canti di Castelvecchio.

15[Lettera al Marchese Ferdinando Guiccioli, Bologna 10 marzo 1912 ].” Ruggero si accasò a San Mauro, vi ebbe molti figli,tra i quali noi due, e morì tragicamente, assassinato sulla strada maestra, non si sa da chi, non si sa perché. La voce pubblica trova il perché nella bramosia di succedergli e diventar ricco, dove a lui bastava rimanere galantuomo; il perché preso a pretesto fu forse l’aver egli aderito a Cavour e al partito nazionale . Il fatto è che il 10 agosto 1867 rimasero abbandonati nel mondo otto orfani dei quali la maggiore non aveva 17 anni e morì l’anno dopo precedendo di un mese la madre affranta dal dolore . Così di morte in morte, io che ero il quarto sono diventato il primo e Maria è restata quella che era, l’ultima creata forse a consolare delle traversie e delle sventure, a confortare e animare nei tanti scoraggiamenti, il suo fratello che ella ama e che egli ama unicamente. Così ci facciamo compagnia, primo ed ultima, finché non venga il giorno della pace “.

16[Lettera al Marchese Ferdinando Guiccioli, ibidem.].

17In particolare in Edgar Allan Poe

18Divertente la pagella nascosta dell’esame di maturità [Presidenza Liceo Dante. Scritti: Italiano 8, Latino 7, Greco 8, Matematica 6. Orali : Italiano 8, Latino 8, Greco 8, Storia e Geografia 6, Filosofia 3, Fisica 4, Storia Naturale 3, Matematica 2.

19“La prima notte di collegio fu per lui di grande sconforto. Piangeva, singhiozzava forte, solo, nel suo lettino. Non poteva addormentarsi senza la sua mamma, che sempre la sera al suo letto pregava con lui. E sempre gli suggellava gli occhi con i suoi baci “(Maria Pascoli, Lungo la via di Giovanni Pascoli p.1)

20Ida era la penultima di dieci fratelli , due anni più anziana della sorella Maria. Massa 1886 dice di lei il poeta “il breve serto degli aurei capelli” e in un disegno la tratteggia a seno nudo con il pube coperto dai capelli

Francesco Gherardini

POESIA “IL LAMPO” di Giovanni Pascoli: commenti con intermezzi; post aperto

Immagini riprese da “Il Sillabario”  N.4 – 1997 e dalla mostra 2014 a Lustignano

INTERMEZZI

 1) Alcune opere di Fabio Batini, pittore e scultore.

2) Breve commento sulla sua attività artistica.

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LA POESIA “L’ASSIOLO” di Giovanni Pascoli: commenti sulla poesia ed intermezzi

Le immagini di questo post sono riprese da Il Sillabario N.  1-1998

INTERMEZZI

1) Pittura di elisa Borghetti.

2)Alcune pitture di Gabriella Scarciglia (per un commento, vedere poesia “Di luglio”)

3) Artifici retorici di Maurizio Maggi.

4) L’opinione: Historia magistra vitae? di Piero Pistoia et al.

5) Pittura di Paolo Fidanzi.

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qui

LA POESIA “LA SIEPE” di Giovanni Pascoli: commento del dott. prof. Francesco Gherardini, post aperto

Le immagini di questo post sono riprese da Il Sillabario N. 2 – 1996pascoli0001

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Nota del coordinatore piero pistoia PER VEDERE IL COMMENTO DEL GHERARDINI PIU’ CHIARO IN PDF, CARICARE IL POST INTRODOTTO AD HOC IN AGOSTO 2017!

Le poesie “L’Ode sublime” e “Tramontata è la luna” di Saffo: commenti a più voci con Intermezzo a cura di P. Pistoia

Anche testi rivisitati da il ‘Sillabario’ n. 4 1996

LINKS AI SINGOLI COMMENTI

 

Saffo e “L’ode sublime”, L. Ghilli
Saffo e il testo greco, L. Ghilli
Tramonto della luna, A. Togoli
Tramontata è la luna, R. Bacci
INTERMEZZO, a cura di Piero Pistoia

 Scultura ripresa da lospeaker.it_Newsletter del 4-2-2015_Art. di Antonio Vitale

SAFFO_ SCULTURA

Saffo e “L’ode sublime”, L. Ghilli
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Saffo e il testo greco, L. Ghilli
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   Dott.ssa Lucia Ghilli

INTERMEZZO a cura di Piero Pistoia

INIZIO INTERMEZZO

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Sappho-Musei-Capitolini

PRIMA PARTE – INTERMEZZO DI PIERO PISTOIA

Per leggere questa prima parte  intermezzo in pdf cliccare su:

INTERMEZZO_SAFFO_OK1

SECONDA PARTE: Intermezzo di Piero Pistoia

L’ODE 31 DI SAFFO SECONDO LA TRADUZIONE di Giovanni Pascoli

A me pare simile a Dio quell’uomo,
quale e’ sia, che in faccia ti siede, e fiso
tutto in te, da presso t’ascolta, dolce-
mente parlare,

e d’amore ridere un riso, e questo
fa tremare a me dentro al petto il core;
ch’ai vederti subito a me di voce
filo non viene,

e la lingua mi s’è spezzata, un fuoco
già non hanno vista più gli occhi, romba
fanno gli orecchi

e il sudore sgocciola, e tutta sono
da temore presa, e più verde sono
d’erba, e poco già dal morir lontana,
simile a folle.

TESTO LATINO DEL CARMEN N. 51 di Catullo 

Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
vocis in ore,
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures, gemina teguntur
lumina nocte.
Otium, Catulle, tibi molestum est:
otio exsultas nimiumque gestis:
otium et reges prius et beatas
perdidit urbes.

BREVE COMMENTO RELATIVO AL CARMEN 51 di Catullo A CONFRONTO CON LA “L’ODE SUBLIME (31)” di Saffo; rivisitato da SKUOLA.NET.

Questo carme è la traduzione, o meglio un libero rifacimento, della celebratissima ode 31 di Saffo nel vedere la fanciulla amata a colloquio con un uomo. La lirica, ancora oggi interpretata come una sorta di dichiarazione d’amore del poeta a Lesbica-Clodia e tradizionalmente collocata ai primi tempi dell’amore tra i due, testimonia l’originalità con cui Catullo sa entrare in competizione con i modelli letterari più suggestivi.
Il testo fu a lungo inteso come documento della gelosia di Catullo nei confronti di Lesbia, intenta a civettare con un altro uomo. In realtà esso risulta piuttosto centrato sull’analisi che il poeta compie di sé e dei propri sentimenti, a partire dalla constatazione dell’incapacità nel controllare la propria passione, contrapposta alla serenità di chi può stare accanto a Lesbia senza alcun turbamento. Questa lettura, del resto, non è molto diversa da quella che oggi prevale anche nell’interpretazione dell’ode di Saffo, non più ritenuta il canto della gelosia, ma piuttosto l’analisi degli effetti provocati nell’amante dalla contemplazione della persona amata.
Del tutto originale rispetto al modello saffico sembra l’ultima strofa, di carattere propriamente riflessivo, sulla cui reale appartenenza al carme si è lungamente discusso. Particolarmente suggestiva, nel quadro generale dell’opera, l’interpretazione secondo cui questa strofa, centrata sui danni provocati da amore, costituirebbe una prima, implicita percezione da parte di Catullo della sofferenza che il suo sentimento per lesbia gli avrebbe arrecato.
È bene tuttavia non lasciarei suggestionare troppo da indizi che solo apparentemente depongono a favore dell’originalità catulliana. Se si considera che della quinta strofa di Saffo ci è giunto soltanto l’incipit del primo verso: “Ma tutto bisogna sopportare”, e che anch’esso in qualche modo potrebbe introdurre un ripensamento sull’opportunità di liberarsi dalla rovinosa passione d’amore, l’effettivo divario di Catullo rispetto all’originale potrebbe ridursi anche di molto.

Saffo-di-Giuseppe-Mazzullo-239x300Saffo, granito, 239×300

Fondazione Mazzullo, Taormina

Saffo-di-Giuseppe-Mazzullo-660x330-Copia

FINE INTERMEZZO di Piero Pistoia

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Saffo e “Tramonto della luna”, A. Togoli
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Sappho_Smyrna_Istanbul_Museum_Hellenistic_period

Tramontata è la luna, R. Bacci
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