RECENSIONE DEL TESTO “LA PIANTA DEL MONDO” DI STEFANO MANCUSO; a cura dell’accademico Paolo Ghelardoni

RECENSIONE DEL TESTO DEL PROF. UNIVERSITARIO STEFANO MANCUSO “LA PIANTA DEL MONDO,

ED. LATERZA”

a cura dell’accademico dott. Paolo Ghelardoni.

PREMESSA

Stefano Mancuso, docente ad Agraria nell’Università di Firenze, è direttore del Laboratorio internazionale di Neurobiologia vegetale, destinato agli studi sul comportamento delle piante. Questa branca è parte della botanica e studia la memoria, l’apprendimento, l’esperienza e la capacità delle piante ad adattarsi alle condizioni del luogo in cui vivono. Secondo Mancuso le piante hanno anche una forma di intelligenza, concetto che non è accettato da tutti i botanici.

Mancuso ha studiato molto la capacità delle piante e del sistema radicale, sistema che è sensibile a stimoli quali la pressione, la temperatura, l’umidità, certi suoni, le ferite, tanto che le piante sono in simbiosi e comunicano con le altre piante. Vi è da parte di Mancuso ed altri la concezione che nell’area apicale delle radici esista una struttura che evoca funzioni simili a quelle del cervello degli animali. Le piante hanno una vita sociale e una certa sensibilità, pur diversa da quella degli animali, ad esempio al suono e alla sua direzione di propagazione; l’apice delle radice è sensibile alla luce; le piante hanno il sistema circolatorio costituito da pochi organi, ma recettori diffusi in tutto il loro organismo (Mancuso ha evidenziato l’esistenza di cellule vegetali che si comportano come sinapsi dove l’auxina – sostanza naturale che stimola i processi di proliferazione delle cellule e di neoformazione degli organi influenzando fasi importanti del metabolismo vegetativo – sembra svolgere una funzione di neurotrasmettitore). Inoltre secondo Mancuso se la risoluzione di problemi è da considerarsi una definizione di intelligenza, dobbiamo riconoscere che le piante sono fornite di una intelligenza che consente loro di svilupparsi e rispondere ad alcuni problemi che incontrano nella loro vita. Esse si sono adattate agli ambienti marini e terrestri illuminati e per difendersi da erbivori e insetti nocivi hanno sviluppato numerosi adattamenti.

Stefano Mancuso ha pubblicato un volume nel 2020 intitolato “La pianta del mondo” in cui dimostra il suo innamoramento per le piante giustificando questo suo atteggiamento con la constatazione del loro enorme numero e del loro essere la fonte di vita di questo pianeta costituendo esse circa l’85% della biomassa.

Per questo docente il nostro è un mondo verde, è il pianeta delle piante. “il fatto che le piante non appaiano nelle nostre vicende o abbiano il solo ruolo di colorate comparse è frutto della totale rimozione dal nostro orizzonte percettivo di questi esseri viventi dai quali dipende la vita sulla terra”.

In questo volume l’Autore, in otto successivi capitoli, prende in esame alcune piante significative descrivendone con prosa piacevole ed interessante la storia particolare o gli avvenimenti singolari che hanno avuto come protagoniste le piante.

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Dapprima (La pianta della libertà) descrive un fortunato ritrovamento in un libriccino, acquistato al mercato delle bancarelle e dei libri usati di Parigi, di una mappa risalente agli anni della rivoluzione francese che riporta tutte le località d’Europa nelle quali, per disposizione della Convenzione repubblicana del 1792, doveva essere piantato l’albero della libertà (o fraternità); erano generalmente alberi di pioppo (populus) che “alzando la testa sfidano i tiranni e il loro numero supera i sessantamila”. Erano quindi diffusi quasi in ogni città o villaggio nel periodo della rivoluzione. Con dispiacere l’Autore ricorda che di questi alberi non sono rimasti che pochi superstiti in località sperdute dell’Europa.

Nella “Pianta della Città” l’Autore, dopo aver sintetizzato la nostra espansione geografica sulla terra, nota come l’uomo da specie generalista, in grado di colonizzare qualunque ambiente, si stia trasformando in un organismo specialista capace di prosperare solo all’interno di habitat particolari, quali sono le nostre città; ma se queste sono vantaggiose in termini di accesso a risorse, efficienza, difesa, dall’altra ci espongono a un rischio terribile, se queste condizioni urbane dovessero cambiare, metterebbero in pericolo la nostra sopravvivenza. Si impone il concetto di impronta ecologica, uno strumento contabile che consente di stimare il consumo delle risorse e la necessità di elaborazione dei rifiuti di una popolazione umana o di una economia in termini di una corrispondente area produttiva. Quindi le città possono svilupparsi solo perché da qualche altra parte esistono risorse naturali che vengono sfruttate per alimentare il suo sviluppo; e pianificare le città perseguendo soltanto le immediate esigenze degli abitanti è il modo più sicuro perché questi stessi bisogni in breve tempo non possano più essere garantiti. Mancuso prende poi spunto dall’opera rivoluzionaria del botanico Patrick Geddes il quale asseriva l’idea che esista un metabolismo della città e per mantenerlo funzionante la presenza delle piante all’interno dell’organismo urbano è fondamentale. Inoltre le città sono particolarmente vulnerabili al riscaldamento globale e se si riuscisse a piantare una quantità rilevante di alberi nelle città si avrebbero benefici incalcolabili con la fissazione di enormi quantità di CO2.

Ne “La pianta del sottosuolo” si supera il concetto che gli alberi siano individui isolati; molte ricerche negli ultimi decenni stanno dimostrando che non si deve parlare di alberi singoli quanto piuttosto di enormi comunità connesse che, attraverso gli apparati radicali, sono in grado di scambiarsi nutrienti, acqua e informazioni. Comunità estese che possono includere specie diverse, che basano le loro possibilità di sopravvivenza più sulla cooperazione che sulla competizione.

Ne “La pianta della musica” si fa riferimento alla tempesta di vento e pioggia (denominata “Vaia”) che alla fine di ottobre del 2018 investì, con venti a velocità superiori ai 200 km orari, una zona delle Alpi orientali, in particolare la foresta di Paneveggio nel Trentino, schiantando migliaia di piante di abete rosso (Picea abies), celebri per aver fornito il legno per i violini degli Stradivari. L’abete rosso, secondo quanto sostengono i liutai, ha una perfetta conduzione del suono dovuta ai suoi minuscoli canali resiniferi che corrono per l’intera lunghezza del tronco e che con la stagionatura rimangono cavi permettendo all’aria di vibrare al loro interno, come delle microscopiche canne d’organo. Uno dei segreti della grande liuteria del Settecento, sviluppatasi a Cremona, e che fu illustrata da celebri artigiani quali furono Antonio Stradivari, Niccolò Amati e Giuseppe Guarnieri, risiede nella possibilità che ebbero questi di utilizzare abeti caratterizzati da una crescita particolarmente lenta a cui furono soggetti a causa della cosiddetta piccola età glaciale, periodo freddo che interessò l’Europa fra il XV e la metà del XIX secolo; le distanze fra un anello di accrescimento e l’altro sono estremamente ravvicinate. La piccola età glaciale potrebbe essere uno dei tanti fattori della qualità straordinaria degli Stradivari.

La ”Pianta del tempo” consente a Mancuso di collegare lo sviluppo della dendrocronologia con le datazioni col carbonio14. Come sappiamo la pianta ogni anno produce un nuovo anello che aumenta la circonferenza del tronco e studiando la larghezza di questi anelli è possibile conoscere l’andamento del clima nelle passate stagioni. Partendo dalla possibilità di misurare i cicli delle macchie solari con i ritmi di accrescimento degli alberi negli Stati Uniti, si inizia a creare serie cronologiche sia su piante vive sia su resti di legni su rovine di antichi insediamenti aztechi. In tal modo si riesce a costruire sequenze per molti secoli indietro trovando alberi anche di 4.000 anni. Nel frattempo si scopre il periodo di decadenza del carbonio14 e quindi con tale sistema è possibile calcolare l’età di un gran numero di materiali, anche se all’inizio non ci si rende conto che la quantità di C14 non rimane costante nel tempo nell’atmosfera. I progressi della dendrocronologia permisero ben presto di calibrare queste misure in maniera corretta.

Ne “La pianta del crimine” l’Autore mostra con soddisfazione come la Botanica in alcuni casi sia stata fondamentale per aiutare la Giustizia a trovare il colpevole di un delitto e porta come esempio il caso del rapimento e morte del figlio del celebre trasvolatore Lindbergh. Per poter fornire indizi sicuri di colpevolezza dell’accusato del rapimento fu richiesta la consulenza di un esperto del Servizio Forestale del governo. L’agronomo, esaminando una scala di legno usata dal rapitore, potè dimostrare che parti di legno della scala erano ricavate da alberi che crescevano nella zona di residenza dell’accusato; poi un montante della stessa scala era stato piallato da una segheria specializzata di cui si era servito l’accusato e, confrontando l’andamento annuale degli anelli, questo corrispondeva ad un asse rinvenuto nella soffitta dello stesso accusato. In altri casi la presenza di materiale vegetale sul corpo o sugli abiti di un sospettato possono raccontarci della sua presenza o meno sulla scena del crimine, come l’esame dei pollini può fornire informazioni sostanziali. Da questo punto di vista si sono così potuti conoscere gli ultimi spostamenti effettuati da Otzi, l’uomo di Similaun, e il periodo dell’anno in cui è morto. E qui Mancuso lamenta che nessun utilizzo di competenze di botanici risulti nel vasto novero di esperti di ogni scienza contemplati nei laboratori del Reparto investigativo Scientifico (RIS) dei Carabinieri.

Nell’ultimo capitolo “La pianta della luna” Mancuso si riferisce ad un particolare episodio che ha riguardato la missione Apollo 14 del 1971. In quel viaggio a bordo della navicella si trovava anche un contenitore metallico con 500 semi di specie comuni negli Stati Uniti come liquidambar, sequoie, abeti Douglas, platani, pini; lo scopo era di confrontare la crescita di piante normalmente rimaste sulla Terra con quelle i cui semi erano stati sulla Luna. Tornati a terra i semi furono distribuiti in tante parti del mondo e presso di essi venne posta la targhetta “Moon tree” (albero della luna); poi la cosa fu dimenticata, ma negli anni Novanta, per la curiosità di una insegnante degli Stati Uniti, un archivista della NASA è riuscito a rintracciare una settantina di queste piante e da allora si conoscono specie, data di impianto, luogo e condizioni di questi reduci dallo spazio.

In sintesi il volume è un inno d’amore per le piante, che l’Autore ci invita a considerare con maggiore attenzione, ad osservarle, a comprendere l’importanza della loro esistenza perché sono intono a noi, sono la fonte della vita del nostro pianeta; le piante sono dappertutto; il nostro è il pianeta delle piante.

Prof. Paolo Ghelardoni