La poesia “ELOGIO DELLA RAGIONE”, scritta dal premio Nobel Milosz, è proposta per commenti a più voci; a cura del dott. Piero Pistoia (NDC); commento di Susanna Trentini e Paul Feyerabend

PROPOSTE DI COMMENTI ALLA POESIA, a cura di Piero Pistoia:

ELOGIO DELLA RAGIONE  del premio Nobel  Czeslaw Milosz

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Questa poesia fu già commentata, insieme ad altre,  nel lontano 1999 dalla dott.ssa prof.ssa Susanna Trentini (al tempo ancora laureanda) ed il commento fu pubblicato in stampa, nel numero 1-1999 di “Il Sillabario”, inserto della rivista cartacea ‘La Comunità di Pomarance’, con lo scopo di rispondere ad un azzardato esperimento sulla poesia, dal quale pensavamo di avere risposte a domande del tipo “Per capire una poesia è davvero necessario calarla nella sua specifica storia?” ed altre di natura più logica. E forse necessario sezionarla, come fanno i retori, con  loro strumenti raffinati e taglienti, rendendo estrinseci il ritmo, il metro, le rispondenze e le rime, le metafore che abbracciano le cose metaforizzate, gli accordi di colore e di toni, le simmetrie, le armonie…? Tali aspetti consapevolizzati non acquistano forse significati accidentali e falsi, rompendo di fatti l’unità dell’intuizione poetica?E’ possibile capire e godere una poesia, senza conoscere niente del poeta, niente del background culturale in cui è sorta, niente degli strumenti e dei simboli linguistici usati? Gli artisti più grandi non “…trascendono forse il tempo, la società e se medesimi in quanti uomini pratici? (B. Croce Breviario di estetica, Laterza, 1954, pag. 136). Dare al contenuto sentimentale la forma artistica non “è dargli insieme  l’impronta della Totalità, l’afflato cosmico”? Forse alcune risposte si potranno trovare nei commenti personali alla poesia di R. Jeffers (cercare nel blog) e a quella precedente,  scritti da S. Trentini. Noi consigliamo comunque di cercare e andare a leggere su questo blog gli scritti di questa autrice che arricchiscono il pensiero e lo spirito.

Un altro  dei commenti che riflette le nostre aspettative e meglio risponde ai nostri criteri (da prendere come esempio lapalissiano di efficace presentazione di un’opera d’arte) è il sublime commento del poeta Veracini relativo alla poesia di W. Szymborska, ‘Un appunto’, in cui esplodono i punti emotivi nel raccontare un ‘appunto’ di vita. Lo stesso poeta-pittore Fidanzi commenta un’altra poesia di Wislawa con una sua poesia personale e ‘commenta’ Guernica di Picasso, cioè una pittura, con tre  musiche in successione: sinfonia di Shostokovich, serenade di Shubert, fuga di Bach. Qualsiasi manifestazione artistica può essere commentata efficacemente soltanto con  un’analoga forma di arte o anche con altre tipologie artistiche? (per es., una pittura commentata con una poesia o con una musica o con svariate altre combinazioni). Controllare su questo blog.

Sperando di fare cosa gradita ai lettori interessati riportiamo in pdf le accorate ed emotive pagine (circa 2) scritte da Feyerabend, riprese dal testo “Ambiguità e armonia”, Editori Laterza, sperando che Editori e autore si contentino della pubblicità che facciamo al loro denso libro (in caso contrario, se avvertiti (ao123456789vz@libero.it), elimineremo questo riferimento).

Per leggere il coinvolgente scritto di Feyerabend, sia che dica la Verità o meno (il mondo dei rapporti umani è molto complesso), si clicchi su:

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Mi auguro che qualche esperto di poesia e letteratura faccia il proprio commento dal suo punto di vista, consentendo  così di costruire il nostro oggetto-poetico a più dimensioni, una specie di invariante culturale!

Infine abbiamo deciso di ripubblicare anche sul blog,  in pdf,  lo scritto interessante della dott.ssa Susanna Trentini (cliccare sul link sotto riportato)

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dott. Piero Pistoia

CONCETTO DI ENANTIODROMIA ERACLITEA E SUE IMPLICAZIONI SOCIALI del dott. Piero Pistoia e Gabriella Scarciglia

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Una breve poesia di A. Machado come intermezzo.

RIPROPONIAMO ALL’ATTENZIONE QUESTO ARTICOLO IN UN LINK  PER ‘PERTURBARE’, TRAMITE I ‘SEMI’ DEL DUBBIO, IL PENSIERO DI MANICHEI E SICURI DI SE’,  CHE ‘SPARATORI’ DI GIUDIZZI A VENTAGLIO DALLE LORO CERTEZZE, RISCHIANO DI NON VEDERE LONTANO.

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UNA RIDEFINIZIONE DEL MODELLO ES/IO; della dott.ssa Franca Soldateschi, psicologa

Questo intervento è stato ripreso in questo blog, dal post ” MENTE E CERVELLO” (contenente ben otto articoli) per  renderlo più visibile.

Al termine una poesia di Lorella Nardi “OLTRE IL COLLE”.

 

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Scritti enucleati da “Il Sillabario”

LA CREATIVITA’ COME DIFFICILE SQUILIBRIO FRA RAGIONE E IRRAZIONALITA’ della dott.ssa Franca Soldateschi

Questo intervento è stato ripreso in questo blog, dal post ” MENTE E CERVELLO” (contenente ben otto articoli), per  renderlo più visibile.
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Per approfondire i diversi aspetti qui prospettati leggere appunto anche il post a più voci “Mente e Cervello” in questo blog.

POESIA E CANZONE

Il poeta si serve degli altri per parlare di sè

Il cantautore parla degli altri servendosi di sè.

La differenza tra poesia e canzone è sostanziale e determina una platea d’ascolto definita emolto diversa. Non a caso, come dice Magrelli, ai concerti di Bob Dylan ci sono migliaia di spettatori mentre alle letture di Luzi o di altri importanti poeti si arriva appena a qualche decina o poco più.

La canzone è un mezzo mentre la poesia sembra essere un fine. E qui probabilmente sta il motivo della sua scarsa fortuna. Con Valerio Magrelli, che abbiamo ascoltato l’altra sera dalla Gruber duettare con Vecchioni, siamo coetanei e compariamo entrambi sulla circolare di poesia – rassegna di originali BARBABLU’ N° 5 di Siena del 1981. Ricordo anche la sua partecipazione alla COLLINA, foglio di poesia da me fondato sempre a Siena, con altri amici, nel 1984, che dimostrava, nella rubrica Poesia e Poeti:” metapoetica e autocritica, ovvero la poesia che si pensa”,un senso già compiuto della poesia stessa attraverso il recupero di una cultura storico rappresentativa, legata ad una precisa collocazione, condivisibile o meno, dell’arte poetica stessa.

Ne riporto volentieri la traccia. Scriveva Magrelli:

“Tempo fa, ricevetti l’invito a presentare una scelta delle mie poesie per la collana “Codici di Poesia“edita da “l’orcio d’Oro” e da Vanni Scheiwiller. La pubblicazione, ancora inedita,mi parve un’occasione presiosa per organizzare tanto materiale secondo un criterio coerente (anche se, probabilmente, fittizio). Cercai cioè d’individuare nei miei testi un punto di fuga nascosto, un luogo prospettico privilegiato. Non una figura, né un soggetto, piuttosto la maniera di disporre l’oggetto prima di ritrarlo, il genere di posa preferito.Cercai di chiarire il senso della silloge ricorrendo a un occhiello, una semplice frase tratta da un dizionario che mi parve particolarmentre signficativa

Eccola”Carbonchio. Lat. Carbonculus, dim. Di carbo-onis e applicato al doppio valore di gemma e di malattia: calco sul gr. Anthraks”. Questa parola con cui la malattia convive con la gemma, in cui la gemma arde di una luce malata, mi sembrò indicare con inconsueta precisione uno dei temi ricorrenti nei miei versi: lo scambio tra la pietra e l’organismo. Raccogliendo i miei lavori sparsi ho ritrovato in vari passi tutta una famiglia d’immagini nate da questo processo di cristallizazione dell’animato, di fossilizzazione. Credo infatti che il fossile rappresenti quella condizione ideale in cui il reperto, consumata per intero la sua esitenza creaturale, giunge a trasfigurarla in puro segno, in disegno. E vorrei segnalare due recenti letture che mi hanno guidato all’interno di questo mondo simbolico: il libro di JULIUS VON SCHLOSSER sulle Wunderkammern e l’Essai de paleontologie lingiustique di ADOLPHE PICTET. Non so se queste poche tracce serviranno a chiarire in qualche modo la natura delle mie composizioni(si tratta ovviamente di una ricostruzione a posteriori). Mi basta avere almeno rinvenuto un bizzarro e sublime ascendente in quella linea letteraria tratteggiata da Carlo Ossola in un bel saggio sulla “MINERALISATION DU SIGNE”: De la Conchiglia fossile di (Lorenzo Mascheroni) aux OSSI DI SEPPIA de Montale les “ossements fossiles”de la lettre alliant devenir precieux gisement poetique, lieu de “denaturalisation”, de “fixation lapidaire” de l’ecriture contemporaine”.”

Magrelli , rispondendo a Vecchioni affermava che il testo di una canzone è come la margarina per fare una torta. In sostanza serve per un’amalgama finale che è  e deve restare tale, una canzone. A  proposito della differenza  tra canzone e poesia mi piace riportare l’intervento che l’amico Enrico Diciotti, sempre nel quarto foglio della COLLINA nel novembre 1985 fece su “APPUNTI PER UN’IMPROBABILE POETICA”, riguardo alla poesia. Considerazioni che personalmete sostenni allora e tutt’oggi confermo a testimonianza , appunto , della sciatteria e del disimpengo che pervade il panorama poetico contemporaneo, spesso, come diceva Vecchioni l’altra sera (22/10/16), solo autoreferenziale e portatrice di una chiusura al mondo delle idee e dei sentimenti che allontana la gente dalla poesia  facendola ritenere probabilmente qualcosa di noioso.

Il mio amico Enrico Diciotti scriveva nel 1985:

“1) La società poetica italiana è una società triste. Ha la tristezza delle società piccole, chiuse, ristrette. I suoi processi sono circolari: chi scrive poesia è la stessa persona che legge poesia e viceversa; ben poco di quanto viene prodotto giunge all’esterno, nel mondo indifferente. Le cause

di questa situazione sono in gran parte storiche, culturali, sociali; è però probabile che ad essa contribuiscano anche colpe dei nostri poeti, troppo sicuri di fare cultura (o arte) sia nel semplice riconoscimento dei dieci critici che contano e il successo e l’assunzione per cooptazione nell’empireo della società poetica.

2)Non rientra tra i miei ineressi indagare l’essenza della poesia (ammesso che una simile operazione possa avere un senso) e non pretendo di esprimere un punto di vista che abbia una validità oggettiva; tuttavia anche alcune di queste considerazioni potranno essere forse condivise da chi partecipa alle mie preoccupazioni e sente la tristezza dello stato attuale della poesia in Italia.

  1. Il linguaggio serve per comunicare e l’uso del linguaggio è un atto di fiducia verso la possibilità della comunicazione; anche se ciò non significa un completo abbandono allo strumento, né un uso totalmente acritico di esso. Comunque, CHI NON CREDE NEL LINGUAGGIO AGISCA IN SILENZIO.
  2. Ne consegue la necessità di cessare ogni esercizio solipsistico e cerebrale, rompendo il muro che circonda gli orticelli della poesia, dialogare con un pubblico più ampio-che esiste, a patto di cercarlo, confrontarsi con la vita che esplode all’esterno, immettersi nel flusso della comunicazione.
  3. Una volta stabilita la meta, ognuno prenda la steada che vuole, visto che le strade sono sempre molte, anche se più di una si rivela poi insicura, in disuso, ecc.;così, dopo aver preso le premesse e gli obiettivi, giungo adesso a considerare una strategia poetica e questa si fa,credo, più personale, più privata.Non ho una ricetta, propongo alcuni ingredienti.Un po’ di cinismo per prima cosa:donare alla poesia l’astuzia (e l’incanto) di una merce che deve fare pubblicità a se stessa, renderla piacevole, venderla come torte e pasticcini- e che il lettore mangi e inghiotta anche il veleno di cui è eventualmente farcità. Poi la passione, la passione e il desiderio di stare nel mondo impossessandosi delle sue immagini, lasciandosi sedurre dal suo immaginario per utilizzarlo poi come arma scintillante di seduzione verso il lettore.La poesia, dunque, essenzialmente come seduzione; e qui si fondono gli elementi che parevano contraddittori:cinismo e passione. Altri elementi della seduzione:ambiguità bellezza. Tutto questo credo possa significare restituire alla poesia il proprio splendore.

Splendore e anche una qualche forma di grandezza. C’è qualcosa che si perpetua con la vita- al di là della storia e della moda letteraria- e che sentiamo più grande della nostra essitenza individuale: dico l’enigma dell’origine e della morte, la gioa , la malattia, l’angoscia, il tempo ..;io credo che dobbiamo rischiare (la banalità, la misera ripetizione di ciò che che è già stato detto magnificamente) e tornare a parlarne con meraviglia, amore, terrore.

Qualcuno dice che siamo discrepiti ormai. Io non ho questa convinzione; mi pare invece che, ovunque adesso siamo (sull’orlo della storia, sul limitare di un’era,al termine di un millennio, o nell’istante diu una nascita, o in qualunque altro momento senza nome) , la nosttra sensazione è di vivere in una fiamma in cui brucia ogni esperienza , arte, poesia, di ogni tempo e luogo: forse in questa fiamma molto (tutto) è di nuovo, possibile……..”

Due parole ora sulla questione , insita in tutto il mio intervento,del Nobel per la letteratura, assegnato nel 2016 al cantautore Bob Dylan.

La poesia può essere musicale e anche pittorica. Il ritmo e l’ironia servono a questo. La parola che dispiega significati può essere paesaggio e anche transfigurazione diventa la disposizione dei versi,come troviamo nel primo futurismo , per esempio. Ma la poesia rimane poesia con la sua tensione interna che difficilmente si trasmette con il testo della canzone o con un opera pittorica. Perchè la poesia può rimanere incompiuta e restare poesia , cosa che non accade in musica e pittura. Forse per questo le canzoni di Dylan assomigliano alla poesia , nel momento che ogni volta ,reinterpretandole in modo diverso, si fanno poesia. I giudici di Stoccolma sono forse stati indotti da una simile rappresentazione a definire le sue canzoni poetiche e letterarie? Dove stanno le valide argomentazioni a favore del Nobel a questo cantautore? E giustamente di questo parlavanoMagrelli e Vecchioni l’altra sera. Non c’entra l’invidia od altro. Il confronto mi è parso maturo.

Poi, naturalmente , ognuno la pensi come vuole.

Dott.Paolo Fidanzi

ISTINTO ARCHETIPO RITO ESPERIENZA di piero pistoia

Questo intervento è stato ripreso in questo blog dal post ” MENTE E CERVELLO” (contenente ben otto articoli) per  renderlo più visibile.

ISTINTO, ARCHETIPO, RITO, ESPERIENZA: SPUNTI PER UNA DISCUSSIONE CRITICA

del dott. Piero Pistoia

In queste brevi considerazioni, forse anche banali, per lo più scritte di getto e volutamente iperboliche, ogni proposizione affermativa si deve pensare terminata non da un punto fisso (dato duro), ma da un punto di domanda, cioè aperta alla argomentazione critica più severa (per dirla alla Popper).

Come intermezzo un dipinto a cera di Batini.

PER LEGGERE L’ARTICOLO IN pdf CLICCARE SU:

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Per chiarirsi i concetti vedere anche gli altri interventi contenuti nel Post ” MENTE E CERVELLO” in questo blog, e ancora di Piero Pistoia, “Istinto e Ragione” e  “Evoluzione, Istinto, Caccia”

“LE ROCCE BRECCIATE TRIASSICHE DELLE COLLINE METALLIFERE: calcare cavernoso e anidriti di Burano”, dott. E. Pandeli e dott.ssa E. Padoa, Dipartimento di Scienze della terra, Università di Firenze.

Segue un pensiero poetico dell’ accademico prof. Forese Carlo Wezel

Per  leggere l’articolo in pdf, cliccare su:

pandeli_padoa0001 in pdf

Rivisitato da Il Sillabario n.4-1998

COMMENTO ALLA POESIA DEL CARDUCCI “COLLOQUIO CON GLI ALBERI” del Dott. Prof Francesco Gherardini

Per vedere il commento in pdf cliccare su:

carducci_colloquio-con-gli-alberi-1 in pdf

 

COLLOQUIO CON GLI ALBERI

Rime nuove, libro II,n° VIII, “Colloqui con gli alberi”

Te che solinghe balze e mesti piani

Ombri, o quercia pensosa, io più non amo,

Poi ché cedesti al capo de gl’insani

Eversor di cittadi il mite ramo.

Né te, lauro infecondo, ammiro o bramo,

Ché menti e insulti, o che i tuoi verdi e strani

Orgogli accampi in mezzo al verde gramo

O in fronte a calvi imperador romani.

Amo te, vite, che tra bruni sassi

Pampinea ridi,ed a me pia maturi

Il sapiente de la vite oblio.

Ma più onoro l’abete; ei fra quattr’assi,

nitida bara, chiude al fin li oscuri

Del mio pensier tumulti e il van desio.

Il sonetto “Colloquio con gli Alberi” (ABAB,BABA, CDE,CDE ) fa parte della “Rime Nuove”: una raccolta di 105 liriche numerate , divise in nove libri , composte dal 1861 al 1887 e stampate nel 1906, l’anno del Nobel ; organizzate secondo un disegno formale, non contenutistico e neppure cronologico; in queste liriche – secondo una critica concorde – il sogno di risanamento morale dell’Italia appare irrealizzabile , dominano la spossatezza e il dissolvimento degli ideali risorgimentali , paiono estinte le stesse ragioni della lotta; c’è una sorta di regressione verso un mondo bucolico di fronte allo spettacolo miserevole di avvenimenti politici deludenti.

Nella raccolta (II libro) il sonetto è preceduto da DI NOTTE e seguito da IL BOVE .Nel primo , la notte non fa paura, anzi dissolve le sue tristezze , nel suo seno il poeta trova quiete come un bambino che si abbandona tra le braccia della nonna (pia ava) “ ove l’ire e i dolor l’anima oblia”. Vi si avverte l’eco del celeberrrimo sonetto di Ugo Foscolo “Alla Sera”.Il secondo è un sonetto dedicato ad una figura simbolo di forza pacifica e industriosa, vi si esaltano la serenità e la sanità della vita nei campi, una natura forte amica dell’uomo; sono versi costruiti con espressioni virgiliane, di un naturalismo che richiama la pittura dei macchiaioli .Tra i tre sonetti non ci sono grandissime affinità.

Il nostro sonetto è stato composto il 13 febbraio 1873, ma pensato a Marzo o Aprile 1868 col titolo semplificatorio di “Quattro alberi”. Le prime due quartine costituiscono una sorta di pars destruens. L’ interpretazione letterale è piuttosto semplice. Per il poeta la quercia e l’alloro non meritano l’attenzione e il valore che è stato loro attribuito dall’uomo nel corso dei secoli ; in fondo hanno tradito la loro missione . La quercia , che il poeta percepisce come una presenza imponente e solitaria, simbolo del pensiero profondo della filosofia e della politica, si è prestata a che facessero dei suoi (miti) rami corone per spietati conquistatori e folli distruttori di città; quanto all’alloro in fondo ha mostrato tutta la sua frivolezza, pavoneggiandosi con le sue verdi fronde in un ambiente dominato solo dallo squallore dell’inverno; nella sostanza si tratta di un albero infecondo, improduttivo , utilizzato solo per sfoggiare la sua bellezza sulle teste calve degli imperatori romani.

Con la prima terzina si apre invece uno scenario diverso : come non apprezzare la vite , che strappa la vita facendosi strada e lottando tra i bruni sassi ; essa almeno offre all’uomo un frutto salutare per lui, che almeno per qualche momento gli fa superare la malinconia e il dolore, avvolgendolo nell’oblio.Certo la vita è carica di amarezza e di delusioni, di dolori cocenti, di inganni tanto che si aspetta la fine con sollievo ; allora ci viene in soccorso l’abete, quattro semplici tavole bianche ben levigate sigillano corpo e anima, segnano la fine dei nostri pensieri e dei nostri mai appagati desideri.

Procediamo con un’analisi un po’ più approfondita.

  1. Non si tratta di un sonetto originalissimo per la tematica che affronta ; alcuni critici lo hanno accomunato all’ode “Egoismo e carità” di Giacomo Zanella (1865).

Carducci era un conoscitore e un ammiratore del poeta napoletano, ne parla in due lettere a Chiarini e Barbera del 22 e del 30 Agosto 1868; anche Zanella nella sua ode mostra avversione nei confronti dell’alloro perché è vanaglorioso (“ verdeggia eterno/quando alla foresta le novissime fonde invola il verno”) e infecondo ( “non reca gioia all’augellin digiuno”) ed apprezza la vite “poverella” che almeno col suo “licor” consola “ il vecchierel che tiene colmo il nappo” e lo fa sognare “contento floridi pascoli ed auree biade”. L’ode di Zanella precede almeno di cinque anni il sonetto di Carducci e contiene solamente qualche coincidenza tematica , non ha certo la sinteticità, la perentorietà e la forza di Carducci né una chiusa paragonabile : le auree biade e i floridi pascoli non sono minimamente accostabili a quanto può essere adombrato dal concetto di “nitida bara”

  1. La Rime Nuove sono conosciute per l’attenzione alla Natura della Maremma, irta e selvaggia, dolce e malinconica, sempre luminosa; anche in questo sonetto – astraendo dalla citazione dei quattro alberi che vivono dappertutto e non solo in Maremma- ci sono alcune immagini che ricordano le caratteristiche del paesaggio maremmano dell’epoca : le solinghe balze e i mesti piani, l’ombra della quercia e il verde gramo, i bruni sassi .

Le balze (un termine usato qui in maniera abbastanza generica) non possono non farci correre col pensiero alla città di Volterra, allora nella Maremma pisana, “un bastion suspendu sur la Maremme” (Paul Bourget) ,città natale della madre Ildegonda Celli; Carducci certamente aveva avuto modo di sentire parlare chissà quante volte delle balze: uno spettacolo impressionante , la rottura improvvisa del dolce paesaggio toscano , per chi le vede per la prima volta e che induce a pensarle come una delle cause di ”quell’affetto particolare dal quale mi derivò quello che nei miei begli anni mi turbinò di selvaggio e giocondo nel cuore e mi gemé profondamente nell’animo”[Pescetti,Volterra]. Ma Carducci nel 1873 non era stato ancora a Volterra; vi giunse il 9 agosto 1882 per la prima volta proveniente da Livorno (dove viveva la figlia Beatrice)con Giuseppe Chiarini e Guido Mazzoni, commissari d’esame al Liceo, allora retto dagli Scolopi.1

E poi insieme con il poeta possiamo immaginare i vasti e mesti piani dove ogni tanto incrociare secolari querce solitarie e godere della loro ombra nella grande pianura maremmana, che oggi è tutto meno che mesta, ma che due secoli fa era ancora terra di bonifica e di malaria come ricorda bene il testo di una dolente canzona popolare toscana “Maremma amara” , dove non mancano i riferimenti alla tristezza e alla morte.La quercia che popola effettivamente i piani della Maremma- il verde gramo dei prati pascolo – è sempre stata simbolo di forza e longevità, di fermezza e durezza e la ghirlanda di foglie di quercia è stata da secoli utilizzata nelle insegne militari. Nella prima quartina risalta forte il contrasto : il mite ramo della quercia sul capo degli insani eversor di cittadi.

A prima vista non sembra che ci sia un riferimento preciso ad un personaggio storico del presente o del passato; possiamo però soffermare la nostra attenzione sul termine classico “eversor” 2 e condividere l‘invettiva contro gli insani, i folli, i pazzi che distruggono la vita e le proprietà altrui per desiderio di potenza e di ricchezza. Forse potremmo individuare qualche collegamento con le vicende tormentate di quel lustro 1868-1873. Si tratta di anni assai importanti sia per l’Europa che per l’Italia , caratterizzati dalla seconda rivoluzione industriale, dall’esplosione di tutta la potenza e di tutte le contraddizioni del capitalismo; sono gli anni del petrolio e dell’elettricità, della crescita dei commerci mondiali, dell’esaltante sviluppo scientifico e tecnologico, con l’Italia che stenta ad unificarsi ed arranca mentre emerge prepotente la potenza prussiana ; sono gli anni dell’affermazione e del declino repentino della grandeur francese .

In questo periodo (68-73) in Italia arriva a soluzione , sotto tanti aspetti poco dignitosa, la questione romana: un esito davvero poco apprezzato da Carducci che resta colpito dalla pusillanimità di parte italiana, dalla sudditanza nei confronti della Francia che cessa opportunisticamente nel luglio 1870 dopo la batosta di Verdun, con Roma conquistata grazie al benestare della nuova potenza teutonica e non per un gesto di autonomia e di coraggio da parte dei governanti italiani. Solo Garibaldi salva la dignità degli Italiani. Carducci non ammira la gestione governativa della Destra storica e in particolare di Bettino Ricasoli. Se volessimo interpretare questi versi in chiave simbolica, potremmo vedere raffigurata nella quercia la classe dirigente del tempo e in questi endecasillabi una critica forte alla pavidità di quei governanti, che hanno finito per mettersi opportunisticamente sempre dalla parte del vincitore .3

Quanto all’alloro si tratta di una pianta infeconda (cfr.Zanella) che in fondo non si dovrebbe più ammirare e che il Poeta tuttavia ha desiderato come tutti i poeti hanno fatto da tempo immemorabile. 4L’alloro è una pianta ingannevole (non sempre va sulla testa di chi lo merita veramente) e insolente perché offende col suo verde rigoglioso fuori stagione tutte le piante che sono ormai spoglie, in questo senso è un albero strano , ossia estraneo; il verde brillante dell’alloro si contrappone al verde gramo, ai campi desolati dove ormai il verde stenta a permanere, vinto dalla stagione autunnale. Sempre alzando il possibile velo simbolico, questi versi circa l’alloro potrebbero indurci a riflettere sul comportamento degli intellettuali del tempo, proni di fronte ai potenti e buoni a mettersi in mostra soltanto quando è facile e indolore. Carducci vuol forse dirci che l’arte in generale ha perso la sua funzione civile? Che non torneranno più Parini Alfieri Foscolo Leopardi ?

La vite invece presenta da sempre un aspetto positivo : assai diverso da quello lacrimoso tratteggiato da Zanella [“ Te, poverella vite, amo, che quando/Fiedon le nevi i prossimi arboscelli,/Tenera, all’altrui duol commiserando,/Sciogli i capelli./ Tu piangi, derelitta, a capo chino,/Sulla ventosa balza.”], qui la vite ride pampinea 5,brilla nei colori vivaci dei pampini , ma soprattutto quasi con gesto religioso e benigno (pia) matura per il poeta il vino che dà l’oblio , che saggiamente ci fa dimenticare gli affanni. Questo riferimento merita qualche parola in più.

Vino e oblio: si tratta di un motivo classico già presente nei lirici greci. “Beviamo! Perché attendere i lumi? Il giorno vola.Prendi le coppe grandi variopinte, amico. Il vino! Ecco il dono d’oblio del figliolo di Semele e di Zeus. E tu versa mescendo con un terzo due terzi, e le coppe trabocchino, e l’una l’altra spinga.” (Alceo, 11) Il vino è stato un simbolo del soprannaturale pagano : Dioniso nasce da Semele mentre è colpita dal fulmine , il fulmine produce fremito e furore come lo stato di ebbrezza nasce dal vino, uno stato che permette di sciogliere l’individuo dai suoi vincoli e dai suoi freni inibitori e che consente di ricongiungerlo alla divinità: nell’ estasi, nell’ entusiasmo , nella liberazione dei sensi. Questo cenno al sapiente oblio potrebbe sembrare un cedimento del poeta alla tematica decadente,6 quella gioia di breve durata , inafferrabile e sfuggente, che potrebbe mutarsi in nuovo dolore; ma arriva un definitivo soccorso: quattro tavole ben piallate di abete per sigillare le passioni, i desideri di altezza e di gloria mai davvero appagati e in fondo vani di fronte alla drammaticità della vita reale .

Qualche cenno biohgrafico non guasta.Per Carducci sono anni questi di dolore e di rabbia, segnati dal suicidio del fratello Dante, poi dalla morte del padre e del primo figlio Francesco, nonché da un insuccesso editoriale e letterario (Levia Gravia) che lo portò ad insultare amici e colleghi, i critici democratici e i massoni bolognesi (tanto da essere espulso dalla loggia cui aveva aderito); diceva di sé in alcune lettere di essere preoccupato perché non riusciva a stimare né ad amare più nessuno; oltre alle vicende personali e familiari ,pesavano moltissimo quelle politiche, romane come la decapitazione di due garibaldini da parte delle truppe di occupazione francesi, l’epilogo tragico della battaglia di Monterotondo e di Mentana, cresceva il suo odio verso PIO IX e verso l’insipienza dei governanti italiani, fino a scrivere “triste novella io recherò tra voi: la nostra patria è vile”(In morte di Giovanni Cairoli). In questi anni Carducci alias Enotrio Romano scrive sull’Amico del Popolo , un giornale bolognese di tendenza repubblicano-democratica, secondo il questore del tempo “un veleno che entra in tutte le vene, serpeggia e si diffonde”, nei fatti una pubblicazione molto apprezzata e largamente diffusa che si batteva a favore delle classi lavoratrici e criticava i governi moderati con toni che portarono a parecchi sequestri.

Una lettura chiarificatrice e decisamente interessante è offerta dalle note biografiche di Giuseppe Chiarini (Impressioni e ricordi di Goisuè Carducci , Bologna 1901, Memorie della vita di Giosue Carducci 1835-1907 raccolte da un amico, edizioni Barbera 1907). Afferma Giuseppe Chiarini che in fondo la generazione di Carducci era stata fortunata perché in poco tempo aveva visto compiersi avvenimenti che sembravano sogni; il piccolo Giosué, rimasto impressionato da ragazzetto (1848-1849) dai volontari che andavano a morire per l’Indipendenza dell’Italia, nel 1856 aveva cominciato a scrivere versi patriottici; si sentiva anch’egli un patriota che si rifugiava nella letteratura (Dante,Petrarca, Alfieri, Foscolo, Leopardi) perché la speranza di una concreta riscossa sembrava lontana; non apprezzava il Manzoni invece : troppa religione, troppa rassegnazione, troppo prete e come tale amico di un potere ostile, Pio IX. Carducci giovane odiava il Romanticismo, barbaro a priori ed amava invece i classici. Ricorda Chiarini :”Eravamo classicisti intransigenti e intolleranti”. Sul piano politico Carducci si spostava progressivamente a favore dei repubblicani, odiava le manovre dei monarchici che non volevano chiudere la questione romana e dopo Aspromonte era letteralmente infuriato contro il Governo e disgustato e amareggiato per i tentativi di accordo con il Papa. Visse il trasferimento della capitale a Firenze come la fine dei sogni e vide un’ elemosina da parte della Prussia e della Francia nella cessione di Venezia all’Italia. Manovre poco dignitose, “ci hanno spinto in avanti a calci in culo”, culminate con l’attacco a Roma dopo la disfatta francese.

A questo punto quattro parole è forse opportuno spenderle sulla coerenza politica di Carducci, tanto messa in discussione.

In questi anni (68-73) emerge lentamente, ma tenacemente la cosiddetta sinistra patriottica di Francesco Crispi, lungo una traccia che parte da un passato mazziniano e garibaldino e giunge fino all’adesione ad una concezione monarchica autoritaria; un cammino non certamente esclusivo del nostro poeta , ma già impostato da Garibaldi e dalla Massoneria 7e percorso anche da Carducci. Assiduo con uomini di governo come Benedetto Cairoli e Francesco Crispi, aveva aderito alla formula “Italia e Vittorio Emanuele” sia pure con qualche frustrazione e alla Loggia di Propaganda della Massoneria (1866-1870) , attratto dai principi derivati dal grande movimento positivista ( libertà, uguaglianza, fratellanza, indipendenza, progresso, anticlericalismo ) . 8 Certamente gli pesava il fatto che l’Italia, dopo tante speranze, ricoprisse un ruolo ancora decisamente marginale nell’agone europeo – soprattutto se confrontato con l’ascesa inarrestabile della Germania di Bismark – e non avesse mai dato prova di un comportamento fiero e dignitoso . Si colloca in questi anni lo spostamento politico ideologico da posizioni di sinistra estrema ( pensiero persino influenzato da Herzen e Bakunin) ad una progressiva accettazione e acquisizione dei temi e delle posizioni della borghesia monarchica, rappresentate da amici massonici che avevano fattto o stavano facendo il suo stesso cammino .

E’ il successo crescente della Germania bismarkiana che incanala il suo amor di Patria e la sua aspirazione alla Libertà sullo stesso percorso di Crispi, che Carducci ammirava e sosteneva; non si tratta della involuzione politica di un singolo personaggio, ma dello spostamento di interi settori della borghesia verso prospettive politiche diverse, che più tardi saranno definite un po’ semplicisticamente di “conservatorismo”. Nei fatti in quegli anni si arricchiscono le sue frequentazioni massoniche e con politici di peso. Più tardi scrisse con sentita convinzione che il razionalismo giacobino, mosso da Montesquieu o da Rousseau, aveva fallito mirando astrattamente a rifoggiare la società senza tener conto della storia e dei fatti, sur un modello rigido e stecchito “ ed esaltò Camillo Benso di Cavour, che aveva accettato la fede unitaria di Mazzini e Garibaldi, aveva indotto la monarchia a farsi carico della rivoluzione italiana e aveva riunificato la Patria e il popolo (Opere XVIII pp. 152 e ss.).

1 La città di Volterra tributò al poeta la cittadinanza onoraria nel giugno 1905

2 Cfr. “ Priami regnorum eversor Achilles” (Verg, Aen,XII,545) , “Oileo eversor di cttà” (Monti, Iliade, XI,974);

3 Garibaldi arruolò 40.000 volontari ; furono migliaia i morti nella battaglia di Digione;trent’anni dopo ricevette dalla repubblica francese la Legion d’Onore

4 Apollo colpito dalla freccia di Eros vuole Dafne che lo respinge e per sfuggirgli si trasforma in un arbusto; Apollo strappa un ramo, se lo mette in testa e si sente appagato e vittorioso.

5 cfr. Verg, Ecloghe, VII,58 “pampineas umbras”)

6 Cfr. Baudelaire, Lete

7 Nel 1864 le logge massoniche si fondono nel Grande Oriente d’Italia con a capo Giuseppe Garibaldi

8 Carducci era entrato in Massoneria nella Loggia Severa di Bologna già nel 1862, nel 1863 aveva composto l’Inno a Satana, poi nel 1865 era transitato nella loggia Felsinea di Bologna