CONFERENZA IN COMMEMORAZIONE DEL CENTENARIO DALLA NASCITA DI ETTORE MAJORANA, del dott. Prof. Angelo Cunsolo, fisico nucleare

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E Maiorana1.

ARTE E SCIENZA: DUE ASPETTI DELLA CREATIVITA’ UMANA del Dott. Prof. Angelo Cunsolo, ordinario di Fisica nucleare, Università di Catania

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Cattedrale di Rouen
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Eventi  prodotti in una Camera di Wilson

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Scienza e Arte : due aspetti della creatività umana

Dott. Prof. Angelo Cunsolo,  Ordinario di Fisica Nucleare, Università di Catania

Quasi un milione e mezzo di anni fa, nella savana africana un ominide bipede stava muovendo i primi passi del lungo cammino che lo avrebbe condotto alla tecnologia e alla scienza.

Aveva attentamente scelto due sassi di silice e, accovacciato tenendo il più piccolo nella sua potente mano, picchiava con questo il più grande poggiato a terra. Non per frantumarlo, ma per ricavarne delle schegge dai bordi taglienti. Lo aveva appreso dopo tantissime prove, “provando e riprovando”….

Ad esse egli ed i suoi successori, i Neanderthal, nei millenni successivi avrebbero via via dato la funzione di raschietti-coltelli, asce, punte di frecce e di lance, creando degli strumenti che avrebbero rivoluzionato l’interazione degli uomini con l’ambiente. In altri termini, alla intuizione balenata nella mente di quell’ominide di utilizzare quel potere di graffiare e tagliare dei sassi aguzzi che forse lui stesso aveva accidentalmente sofferto, seguì una difficile e, pertanto lunghissima, fase di sperimentazione e di apprendimento, che diede agli uomini una rivoluzionaria capacità di plasmare i sassi a nuove funzioni, mediante una tecnica creativa, che avrebbe costituito la base per successive invenzioni ed applicazioni utili ad elevare il loro livello di civiltà

Solo qualche decina di migliaia di anni fa, gli uomini di Cro-Magnon perfezionarono la tecnica di percussione e inventarono la tecnica di lisciatura delle schegge bifacciali, a punta e con due bordi taglienti (amigdale) attenute per una sapiente percussione (solo quattro colpi), aggiungendo una nuova ed eterea qualità ai loro prodotti litici . Essi coniugarono la funzionalità, magari migliorata delle amigdale dei Neanderthal con una nuova, non necessaria anzi in pratica più faticosa, ma superiore, caratteristica astratta cioé la bellezza ossia, l’elegante simmetria geometrica: uno dei primi vagiti dell’arte.

Analogamente si potrebbero includere i loro artefatti di legno, ossa e pelli di animali, e poi, appresa la tecnica del fuoco, quelli di terra cotta e di metallo. Né si possono escludere quelle straordinarie opere d’arte che sono i graffiti e le pitture rupestri, vere preghiere che suggeriscono una profonda e comune origine nell’uomo della dimensione mistica e dell’ arte. Quei cacciatori-raccoglitori cioè avrebbero inteso elevare una preghiera alle divinità animali per propiziare una fruttuosa caccia, realizzando, ad esempio nelle grotte di Altamura o di Lescaux, figure accuratissime degli animali cui davano la caccia , di rara potenza espressiva e bellezza, che di primitivo hanno ben poco. Infatti i loro artefatti, sia sul piano artistico , che sul piano tecnico-realizzativo, hanno raggiunto a volte vette altissime, magari rimaste successivamente ineguagliate in quell’altalena di progressi e regressi che caratterizza nelle varie civiltà il progresso umano.

Continuando il nostro viaggio nel tempo, i Cro-Magnon, una volta divenuti allevatori-agricoltori, sentirono l’esigenza di controllare le loro greggi e di predire, per esempio, il tempo della semina. Ed ecco che due problemi così diversi , vengono risolti ed unificati inventando procedure simboliche-astratte: si conteranno i capi formanti il gregge e le lune nuove intercorrenti tra la raccolta e la semina, stabilendo una corrispondenza tra un capo di bestiame ed una tacca intagliata sul bastone del pastore ed analogamente rappresentando una luna nuova con un nodo in una cordicella. E’ questo il primo passo per concepire delle entità astratte, i numeri naturali, e per estendere l’osservazione ai corpi celesti: nascevano la matematica e l’astronomia.

A queste conoscenze si diede una valenza magico-religiosa e politica, che diede un grande potere agli sciamani-capi tribù e che produrrà opere colossali come l’innalzamento di megaliti, prima come singoli menhir o come allineamenti di decine e decine di menhir, e poi come dolmen, tombe a cumulo e quindi come complessi e magnifici templi megalitici come quelli di Stonehenge e Malta: nasceva l’architettura religiosa che già si fregiava di bassorilievi simbolici e statue votive. E come dimenticare le vette artistiche raggiunte dall’arte minoica, per esempio il palazzo di Cnosso a Creta, o nell’Egitto dei Faraoni, nelle città anatoliche e nelle città assiro-babilonesi o in Cina , India e Tailandia , in Asia o nelle civiltà dei Maia, Inca e Aztechi nelle Americhe? Le conoscenze empiriche e tecnologiche, che faticosamente si andavano accumulando in nuovi campi del sapere, spesso in luoghi spazio-temporali diversi, spingevano sempre più in alto il livello di civiltà rendendo possibile la realizzazione di tombe e monumenti regali, templi e città che ancora oggi stupiscono, e ad un miglioramento delle condizioni di vita.

In realtà si dava alle conoscenze non un valore in sé, ma funzione delle loro applicazioni pratiche o asservendole alla dimensione mistica e/o all’arte. Bisognerà attendere i greci perché la conoscenza prenda coscienza , cioè nasca la filosofia.

Tuttavia, mentre la geometria, l’aritmetica, l’estetica e pertanto l’arte nelle sue varie espressioni, venivano elevate a livelli di discipline “nobili”, la fisica e le altre discipline fondate sull’osservazione umana, empirica e pertanto fallace, restavano a livello di conoscenze secondarie. Infatti la scuola “ razionalista” di Atene con Socrate, Platone ed Aristotele primeggiò sulla scuola “empirista” di Eraclito, Pitagora, Democrito ed in particolare Archimede per citare alcuni illustri componenti delle due Scuole. Bisognerà aspettare la cultura islamica, fondata su una rilettura attenta delle opere greche e sviluppata da un fervido ardore religioso, e quindi la poderosa spinta rinnovatrice del Rinascimento per superare l’impasse della Scolastica e finalmente con Galileo Galilei si perviene ad una chiara definizione di “ Metodo (per costruire una Scienza) sperimentale”. Esso si basa su quattro momenti: scelta di una classe di fenomeni naturali e l’osservazione sistematica di “Esperimenti”, cioè di alcuni tra tali fenomeni che avvengano in condizioni chiare e controllate, cioé ripetibili, effettuata misurando con opportuni strumenti le grandezze (quantità misurabili ben definite sia dal punto di vista concettuale, che operativo ) che caratterizzano (secondo il giudizio del ricercatore) tali fenomeni, e quindi generando i “dati sperimentali”. Secondo, questi sono analizzati con criticismo mediante operazioni logico-matematiche al fine di mettere in luce, ove esistono, interdipendenze o correlazioni tra tali grandezze: ”leggi sperimentali”. Per esempio le leggi di Keplero sul moto dei pianeti, che si basavano sulle accurate osservazioni astronomiche (misure di posizioni nel tempo dei vari pianeti) di Tycho Brake (primi del 1600).

Le leggi sperimentali descrivono in modo sintetico ed essenziale classi di esperimenti, ma non rispondono alla domanda : perché tali fenomeni si producono ed evolvono nel modo osservato, né tantomeno forniscono una descrizione delle varie classi di fenomeni omogenei coerente ed unificata. Una prima sintesi è rappresentata dall’elaborazione di un modello più o meno qualitativo che descriva i fenomeni “come se…”. Per esempio in astronomia le leggi di Keplero erano più facilmente interpretate nel modello Copernicano che in quello Tolemaico, ma non spiegavano chi o cosa faceva muovere i pianeti, né si poteva applicare al moto dei gravi sulla terra.. Il compito di unificazione è demandato (terzo momento) alla “teoria”, cioè ad un insieme di asserti (i “principi primi”) non necessariamente dimostrabili a priori (come i cinque postulati di Euclide in geometria), che obbediscano ad un criterio di indipendenza reciproca, siano in numero minimo e non mutualmente escludenti. Alcuni di essi debbono essere di natura logico-matematica. Ovviamente la scelta di tali asserti non è univoca, né giustificata a priori, come in Matematica, ma a posteriori mediante (quarto momento) la “Verifica”, cioè spiegando, via operazioni logico-matematiche, leggi e modelli che l’hanno, per così dire, ispirata”. Ad esempio la teoria sul moto dei corpi di Isaac Newton (I tre famosi principi della dinamica ed il calcolo infinitesimo associato) spiega sia il moto dei pianeti, che il moto dei corpi in generale con previsioni molto accurate. Inoltre la teoria può, anzi è vivamente auspicabile che assuma carattere di generalità e pertanto possa prevedere nuovi fenomeni e stimolare nuovi esperimenti di verifica ( il “provando e riprovando” di Galileo Galilei). Tali esperimenti possono aprire ad inaspettate e possibilmente rivoluzionarie scoperte ed applicazioni. Se, infatti i nuovi esperimenti dovessero produrre dati in disaccordo con quanto previsto dalla teoria accettata, allora , come affermava Eraclito “ Il no è la molla dello sviluppo”, e, parafrasando Karl Popper, la “Falsificabilità” è garanzia della potenziale veridicità della conoscenza, questa viene messa in crisi e posta a revisione critica. Bisognerà cioè individuare l’assunto della teoria origine del disaccordo e correggerlo formulando una nuova teoria più generale , che cioè includa quanto “spiegato” dalla vecchia teoria, compreso l’esperimento “critico” e possibilmente schiuda nuovi campi d’indagine. Sempre sulla tematica del moto dei corpi, l’esperimento di Michelson e Morley fu, quasi un secolo fa, un esperimento critico, che mise in evidenza che per velocità confrontabili a quella della luce, la teoria classica fondata sulla meccanica di Newton (Tempo e spazio assoluti, cioè indipendenti dal sistema di riferimento in cui si descrivono i moti) non spiegava i relativi dati sperimentali, il che avrebbe portato alla Relatività speciale di Albert Einstein. Ulteriori esperimenti con i costituenti elementari della materia (molecole, atomi, elettroni e via dicendo) avrebbero poi invalidato la fisica classica anche a livello microscopico e dato origine alla fisica quantistica. Oggi si ricorre alla fisica quanto-relativistica per analizzare gli esperimenti di collisioni tra particelle a grandissime energie effettuati al CERN di Ginevra, e domani ….? Insomma, il Metodo Sperimentale praticato già da Archimede, ma chiaramente formulato da Galilei nel ‘600, permette di distillare lentamente, ma sicuramente una teoria viepiù generale ed accurata, cioè di pervenire ad una descrizione-comprensione sempre più vasta ed accurata dei fenomeni indagati.

Considerando le varie scienze sperimentali, quali Fisica, Chimica, Botanica, Zoologia, Geologia, Medicina e via dicendo, si può dire che è tutta la Natura ad essere investigata da una moltitudine di ricercatori che, ai nostri giorni, sempre più lavorano in equipe ed in campi di indagine multidisciplinari.

Il progresso delle scienze viene determinato dalla creatività dei ricercatori sperimentali che si ingegnano ad inventare nuovi strumenti di misura sempre più precisi e nuovi esperimenti suggeriti dalla teoria accreditata e possibilmente in campi inesplorati, da un lato e dai ricercatori teorici dall’altro , che si impegnano nel raffinare i modelli, spesso esemplificazioni della teoria a volte solo ipotizzata, in presenza di uno o più esperimenti critici, nel difficile impresa di “generalizzarli“ compiendo un passo verso una teoria che possa unificare discipline apparentemente diverse. Certo, l’evoluzione storica delle scienze sperimentali mostra questo progresso, che ha generato da una parte il portentoso ampliamento delle conoscenze e dall’altra le attuali grandi realizzazioni tecnologiche che ci permettono di fruire di servizi fino a poco tempo fa inimmaginabili. Questo ha portato a concepire schemi concettuali sempre più astratti e pertanto più lontani dal nostro senso comune, basato sul nostro vissuto, cioè su ciò che percepiamo con i nostri sensi, alla nostra scala. Una tale evoluzione, oltre che nelle scienze sperimentai è anche riscontrabile nella evoluzione delle discipline artistiche che dal naturalistico-figurativo sono via via passate ad espressioni più astratto-simboliche quali, ad esempio, l’impressionismo, il cubismo e l’astrattismo in pittura e scultura, o il Jazz e la musica dodecafonica in musica. Nell’arte tuttavia, , anche se le correnti e/o scuole hanno avuto un ruolo di guida nel superamento dei vecchi e nella definizione dei nuovi canoni estetici, la ricerca artistica, che pure verte sulla comprensione dell’uomo e del suo mondo materiale, ma che include altresì la sua dimensione spirituale inaccessibile alle scienze sperimentali, è essenzialmente basata sulla soggettiva sensibilità del singolo artista. E’ Lui che, nel fuoco della creazione artistica concepisce e forgia la sua opera e la esprime nel suo linguaggio, che spesso non ammette un’unica, chiara interpretazione come nella scienza, pur nella difficile veste tecnico-specialistica di quest’ultima. E ciò a volte per indurre nel fruitore d’arte una risposta profonda, sensitiva, non razionale come nel caso del messaggio scientifico, che lo proietti direttamente nell’universo dell’artista. Ecco quindi una dicotomia fondamentale tra arte e scienza: nell’arte non c’è verità oggettiva, mentre la scienza la postula fermamente , anche se la immagina come teoria “ultima e finale” ottenuta tramite una serie infinita di approssimazioni successive. D’altronde l’arte definisce l’opera d’arte come entità, reale e astratta, creata da un ricercatore d’arte (l’artista) in cui confluiscono bellezza e vitalità (anche queste entità non definibili in ambito scientifico ). Dal versante scientifico si potrebbe contrapporre all’opera d’arte la scoperta scientifica, facendo corrispondere alla bellezza, l’eleganza di uno schema concettuale chiarificatore o di una equazione matematica che lo sintetizza e alla vitalità, la capacità di previsione quantitativa dei principi , per esempio in fisica basati sulle simmetrie fondamentali. Infine si può riscontrare anche nell’arte una ricerca di proprietà ”scientifiche”. Ad esempio nell’architettura le splendide cattedrali gotiche, in cui fisica ed estetica sono intimamente fuse, e/o in musica le splendide fughe di J. S. Bach , in cui le simmetrie geometriche –matematiche generano un’armonia capace di elevare il fruitore a Dio.

Concludendo, si può asserire che l’arte e la scienza sono due aspetti complementari della multidimensionale creatività umana che contribuiscono fondamentalmente e da sempre alla evoluzione dell’uomo, sia sul piano materiale che spirituale.

Non c’è nulla di errato nell’intelletto che prima non sia stato negli erranti sensi” Parmenide di Elea (V° secolo a.C.)

(Angelo Cunsolo)

LA FINE DELL’ESTATE, poesia di Paolo Fidanzi

LA FINE DELL’ESTATE

Può darsi che domani

questa spiaggia sia deserta

di grida  e  di giovani corpi.

Potrebbe anche piovere.

Chissà.

Sarebbe meglio,

di certo,

che tutto rimanesse com’è,

che non ci fosse una fine.

Che le barche

e i costumi colorati di queste ragazze

ci riempissero gli occhi

nei prossimi sogni

dove il tempo scorrazza felice.

Come cavalli donati sarebbero,

credo, gelosamente archiviati

nella memoria a lungo termine.

Paolo Fidanzi

AL GATTO NERO, poesia di Paolo Fidanzi

IL GATTO NERO

 

Il pallone roteando

è atterrato nello spazio

controllato dal bagnino,

che girandosi di scatto

s’esibisce in una presa

disperata.

E dal mare, soddisfatto,

pregustando quella palla,

come il gatto con il topo,

già mimando una pedata

sopraggiunge ,

poco dopo,

un ragazzino.

Paolo Fidanzi   2014

POESIA DI WISLAWA SZYMBORSKA a cura di Paolo Fidanzi, post aperto

Questa grandissima poetessa polacca Premio Nobel per la letteratura del 1996 nata nel 1923 e morta nel 2012, ha lasciato come ultime testimonianze un paio di libretti  entrambi editi da ADELPHI nel 2012, “DUE PUNTI” e , postumo, “BASTA COSI’, carichi di estremo rigore ed ironia. Da uno di questi, “DUE PUNTI”, è tratto il testo  “AVVENIMENTO” che personalmente commento con una mia poesia e che invito gli amici che leggeranno questo post, in particolari studenti, a commentarla liberamente.

AVVENIMENTO

Cielo, terra, mattino,

ore otto e quindici.

Quiete e silenzio

tra le erbe ingiallite della savana.

In lontananza una pianta d’ebano

con foglie sempreverdi

e radici estese.

D’un tratto la beata immobilità viene turbata.

Due esseri che vogliono vivere scattati nella corsa.

Un’antilope in fuga impetuosa

e dietro una leonessa ansante ed affamata.

Al momento le loro chances  sono pari.

La fuggitiva è perfino in vantaggio.

E se non fosse per quella radice

che spunta dal terreno,

e se non fosse per l’inciampare

di uno dei quattro zoccoli,

se non fosse per il ritmo spezzato d’un quarto di secondo,

di cui approfitta la leonessa

con un lungo balzo.

Alla domanda-di chi la colpa,

nulla, solo silenzio.

Incolpevole il cielo, CIRCULUS COELESTIS.

Incolpevole la terra nutrice, TERRA NUTRIX.

Incolpevole il tempo, TEMPUS FUGGITIVUM.

Incolpevole l’antilope, GAZZELLA DORCAS.

Incolpevole la leonessa, LEO MASSAICUS.

Incolpevole l’ebano, DIOSPYROS MESPILIFORMIS.

E l’osservatore che guarda con il binocolo,

in casi come questo,

HOMO SAPIENS INNOCENS.

 

COMMENTO PERSONALE CON UNA MIA POESIA

Quando ciò che accade è senza rimedio,

quando l’agire umano non può influire oltre lo sguardo,

ecco la condanna dell’umanita’.

C’è  di sicuro qualcosa che sovrasta

la nostra buona volontà.

E a volte per questo si rinuncia ad agire.

Chi è più attento lo sa

e solo per decenza  forse si agiterà

per cercare di salvare qualcuno o se stesso

dalla necessità.

PAOLO FIDANZI

COMMENTI ALLA POESIA ‘LA MIA SERA’ di Giovanni Pascoli, del dott. prof. Francesco Gherardini; post aperto

COMMENTO ALLA POESIA ‘LA MIA SERA’ di Giovanni Pascoli

del Dott. Prof. Francesco Gherardini

 

 

Clicca sulle parole ‘calde’ per vedere l’articolo di Gheradini:

LA MIA SERA di Giovanni Pascolix in OpenOffice

LA MIA SERA di Giovanni Pascolix  in Pdf

 

LA MIA SERA di Giovanni Pascoli

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.
E’, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io … che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don … Don … E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra …
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era …
sentivo mia madre … poi nulla …
sul far della sera.

L’anno 1900 1 si aprì a Gennaio con uno screzio tra Pascoli e D’Annunzio. Quest’ultimo aveva da poco terminato di scrivere “Il Fuoco” (dopo mesi di indefesso lavoro ) e aveva ricevuto pubbliche lodi dal Pascoli. Si era cimentato successivamente nel commento all’ VIII canto dell’ Inferno, ma stavolta Pascoli aveva scritto di lui all’amico Gargano che “ a proposito di Filippo Argenti ripeteva le solite stupidaggini, dimostrando di non aver neppure letto quello che lui aveva scritto nel “Convito” e concludeva acido : ”O che le sue frasche gli sembrano più vistose del pensiero di Dante?”. Una lettera di un certo Angiolino Orvieto sulla Caccia, comparsa sul Marzocco, completò l’opera; fu fraintesa da Pascoli, che reagì in maniera piccata (e con maligne allusioni verso il Vate abruzzese). D’Annunzio replicò con una lettera, “insolente e triviale”, accusando il poeta romagnolo di essere “una donnetta inacidita e pettegola … con il gusto di rimanere su la ciambella, di centellinare il fiasco e di curare la stitichezza del suo cagnolino”. 2

L’anno proseguì a Marzo con la sesta medaglia d’oro conquistata dal poeta romagnolo al Premio Amsterdam, la composizione dell’Inno alla Sicilia, la stampa a Giugno del voluminoso “Sotto il velame” seguita da notevole successo di vendite e di critica. A fine Luglio il suo cuore fu ferito dall’uccisione di Re Umberto e compose “Al re Umberto” (Nel Mondo di grande c’è il Male!); ad Agosto ebbe qualche incomprensione con l’Autorità ecclesiastica, poi trascorse le ferie a Castelvecchio, ebbe le visite dei numerosi amici ed estimatori; questo periodo fu caratterizzato dal disappunto per quanto andava male il matrimonio della sorella Ida (Du, Dudin), ma anche dalla vita scherzosa e dall’ingenua allegria dei contadini. Ad Ottobre finalmente si tirano le somme; Zvanì scrive all’amico Caselli :”Sono pieno di tribolazioni! Ne ho guasti i sogni, caro amico! Mi sfogherò scrivendo oggi La mia sera, un innetto molto melanconico

Ecco ricostruito l’antefatto della composizione di questa poesia, scelta da me perché presenta tanti aspetti costruttivi e molti temi della poesia di Pascoli.

L’innetto, divulgato per la prima volta per le nozze di Margherita, figlia del conte G. Codronchi Angeli, fu pubblicato su “ Il Marzocco” a fine 1900 e inserito nei “Canti di Castelvecchio” nel 1903, consta di cinque strofe (le prime tre generalmente definite come “descrittive”, in realtà cariche di significati reconditi e di simboli, le seconde due “personali” di otto versi ciascuna (sette novenari e l’ultimo senario), chiusi sempre dal termine “sera”, con rima alternata ABABCDCD; vi sono richiamati fenomeni aerei (tempesta, bufera, umidità, lampi, scoppi, fulmini, nube, cirri) e terrestri (campi, rivo), animali (rondini, nidi, ranelle), piante (pioppi), suoni (singulto, canti di culla, gre gre); c’è una vera e propria ridondanza di aggettivi tra loro contrastanti/dissonanti (tacite, breve, tremule, leggiera, tenero, vivo, allegre, monotono, cupo, aspra, dolce, umida, infinita, canoro, fragili, stanco, nera, rosa, ultima, serena, garrula, limpida, azzurra) ed una straordinaria abbondanza di figure retoriche: allegoria (sera – generale), antitesi (finita-infinita), onomatopee (gre gre, don..don..), ossimori (dolce singulto, tenebra azzurra), sineddoche/metonimia (nidi per rondinotti), assonanza (cupo tumulto), climax (cantano, sussurrano, bisbigliano), allitterazione (cirri di porpora e d’oro), sinestesia (fulmini fragili), analogie (suono campane, voci, ninna nanna).

La prima strofa serve a contestualizzare il tema; i lampi squarciano il buio, aiutano a far luce, 3 rischiarano per un brevissimo arco di tempo (fulmini fragili 4) il mondo vero, quello nascosto ”sotto il velame”, quello che si cela dietro a ciò che noi, come i prigionieri della caverna di Platone, confondendoci, chiamiamo realtà; fanno affiorare l’inconscio, ossia qualcosa che non si può affrontare con la sola Ragione. Alla fine però arrivano comunque le stelle. Esse rappresentano l’eternità, la luce più duratura, le più alte aspirazioni umane, tracciano la nostra via, ci guidano verso una meta. 5 L’atmosfera è ferma, rotta soltanto dal gracidare delle rane; un suono gioioso 6, legato al cessato pericolo e alla speranza che non si ripresenti la bufera, accompagnato dal singhiozzo “dolce” del rivo … che fa pendant con la “gioia leggiera” delle “tremule foglie dei pioppi”. 7 Evidentemente la Natura si comporta come una persona che è stata male, ha pianto e singhiozzato a lungo e a poco a poco, per quanto ancora molto scossa (tremule/tremore), si calma e si rasserena.

Nella strofa successiva protagonista è il cielo, che qui simboleggia la vita stessa del Poeta e della sua famiglia; è tenero e vivo (questa non è certo una descrizione naturalistica!) perché provato dalle disgrazie e da un dolore infinito, continuo, mai sopito, da una ferita mai rimarginata e rimarginabile. In questo cielo devono necessariamente comparire le stelle: deve esserci una svolta. Pascoli scriveva un anno dopo all’amico Alfredo Caselli: “Caro amico del mio tramonto ! Ma il tramonto sarà, spero, luminoso più di un’alba. Leggi La mia sera.” 8

La parola SERA chiude ogni strofa, accompagnato sempre da un’aggettivazione diversa. E’ umida: evidentemente un richiamo al pianto, al dolore che resta nell’aria dopo la bufera, all’ elaborazione mai compiuta di troppi lutti. E’ limpida: il Poeta vede finalmente come stanno le cose, come va il mondo, che cos’è ciò che lo attende; la vita è questa, il tempo prosegue la sua corsa, mentre continua –nonostante tutto – a pulsare la vita, almeno quella degli altri. E’ ultima: 9 coincide con la “compieta”, l’ultimo momento di  preghiera della giornata, anche nei collegi degli Scolopi, l’ora che viene dopo il vespro e che comincia con il saluto iniziale “O Dio vieni a salvarmi”. E’ il momento della riflessione, della meditazione, dell’esame di coscienza per prepararsi …10 alla “fatal quiete” di foscoliana memoria?

Nelle tre strofe successive ritornano le rondini e il nido, un universo caro al Poeta, un mondo gremito di voci e di “stridi”, dove il nido – distrutto e da lui ricostruito con Ida e Mariù – rappresenta una sorta di “paradiso perduto”, di struttura sociale ottimale, all’interno della quale normalmente tutto dovrebbe girare attorno alla figura paterna. La tempesta finisce per placarsi e per essere richiamata dall’eco di un rivo monotono e canoro: una sorta di rumore di fondo ormai stabile, che continuamente ricorda ciò che è accaduto. Nel cielo rotto dai fulmini e ora terso si sono formati cirri di porpora e d’oro. Immagini di un tramonto stupendo, dai colori smaglianti11 . O piuttosto il poeta adombra un’immagine di Ida? In effetti per cirri si intendono non sole le nubi bianche, ma anche i riccioli dei capelli e quelli di Ida erano inanellati e biondi. La nube più nera sta cambiando colore, sta diventando rosea: un po’ di ottimismo; o una situazione meno assillante proprio per Ida?12

I nidi ossia tutte le famiglie – afferma il Poeta – anche se poco, hanno avuto qualcosa, così i rondinotti/figli chiassosi e spensierati possono partecipare alla cena modesta con vivacità. Io no. In effetti Pascoli si lamentò a lungo, per tutta la vita, di non avere ottenuto ciò che a suo giudizio gli spettava (cfr. Maria Pascoli cit.). Che voli che gridi fa venire in mente che speranze che cori di Leopardi, richiama alla mente un’immagine andata di tempi comunque meno tristi. Il suono delle campane del Vespro interrompe questa rappresentazione un po’ più limpida (azzurra, serena) e lo richiama a pensieri più elevati. In realtà lo precipita nel grembo materno; questi ultimi versi ripropongono la figura martellante, assillante della madre e, per così dire, della tragica incancellabile foto di gruppo 13. Lo stesso suono delle campane è cupo (don..don..) e per nulla suadente (dormi …dormi…) come dovrebbe essere; lascia pensare alla morte.14

La mia sera è una lirica delle meno conosciute di Pascoli, solo apparentemente descrittiva e armoniosa, ricca di alcuni simboli già noti (cfr. Barberi Squarotti : i lampi, le stelle, le rondini, il nido ) , costruita con una climax adeguata e con una competenza tecnica – oserei dire – ostentata, con i colori appropriati. I forti contrasti (lampi-stelle, cupo tumulto – dolce singulto, infinita tempesta – rivo canoro, nube nera – nube rosa) creano un senso di turbamento, di pena e di mistero, alimentano l’attesa ansiosa per qualcosa che deve accadere e che accadrà (l’arrivo delle stelle e soprattutto della “ sera”, termine ossessivamente ripetuto ogni fine strofa), il rimpianto per un mondo lontano, puro, ricco di affetti, ormai definitivamente dissolto (canti di culla), ma ben vivo e fin troppo presente nella mente del Poeta. Si può intuire da subito anche il punto di vista con cui Pascoli guarda al mondo, a se stesso e alla sua famiglia; l’accostamento tra il suo terribile dramma familiare e la vita seppur povera degli altri (la fame del povero giorno prolunga la garrula cena); tra “l’aspra bufera” e “l’infinita tempesta” che hanno caratterizzato tutta la sua vita familiare e in qualche modo la pace altrui .

Tutta la poesia è un richiamo continuo al dolore personale di Giovannino, come lo chiama l’inseparabile sorella Maria, un dolore indomabile, che ha “stancato” la sua esistenza; dominata da un pensiero fisso, bloccato sulla propria sofferenza individuale e familiare; un rimuginare che pare concludersi con l’accettazione rassegnata della morte come prospettiva concreta e forse vicina. Nell’attesa di questo momento, la disperazione pare temperata soltanto dal ricordo dell’infanzia (la culla, la mamma, la ninna nanna) quando tutto intorno a lui appariva come tenerezza e dedizione. A rompere il vaso di Pandora, a sprigionare tutti i mali – come sappiamo – furono l’assassinio del padre e poi la lunga catena di lutti familiari 15; “il turbine che percosse, disperse, distrusse la nostra famiglia” come scrive la sorella Mariù .16

Con gli occhi di bimbo Pascoli ricostruisce il mondo agreste che lo circonda, rievoca i fenomeni naturali, ciò che fin da bambino lo ha impressionato, forse affascinato (il temporale, la bufera, i lampi e di seguito “la quiete dopo la tempesta”: il gracidare delle piccole rane, il tremolio delle foglie dei pioppi, il volo famelico delle rondini alla ricerca di insetti nell’aria) e lo individua come chiave interpretativa della sua storia personale, quella che la Natura ha sempre conosciuto. Aspetta la morte, la sente vicina, la desidera ?!

Scrive Hegel nell’Estetica : “La bellezza artistica si manifesta al senso, alla sensazione, all’intuizione, alla immaginazione, ha un ambito diverso da quello […] della tetra interiorità del pensare” e allora cerchiamo di approfondire in particolare gli aspetti psicologici, nascosti, che emergono da questo testo . Occorrerebbe in primo luogo saperne di più sull’Autore, conoscere bene la sua biografia per ricostruire la sua psicologia. Lo stesso Pascoli scrive nella prefazione a Sotto il Velame: ” Ci sono alcuni che sdegnano questo tipo di indagini…La lucernina può (invece) rivelare qualche meandro nuovo, qualche nuovo abisso, qualche improvviso simulacro, qualche scritta ignorata”. Secondo me, nel caso specifico di questa poesia, la conoscenza –anche minuta – della biografia dell’Autore è sicuramente di grande utilità, può aiutarci – per così dire – a capire meglio l’oggetto spirituale che la poesia ingloba. Del resto sempre Hegel scrive in proposito: “ La poesia è in grado di riunire sotto una forma di interiorità l’interno soggettivo del Poeta con i particolari e i dettagli dell’esistenza esterna”.

La mia sera dunque è una poesia nient’affatto suggerita da un giorno particolarmente piovoso, ma è una riflessione sulla intera sua vita; al termine della quale sostanzialmente Giovanni Agostino Placido Pascoli esprime il desiderio “in questo atomo opaco del male” (X Agosto) di ottenere un po’ di pace dopo troppi lutti familiari . C’è una orchestrazione di fondo percepibile: è data dal linguaggio del “fanciullino”, quello del mondo dell’infanzia, fatto di colori e di rumori, della piena e immediata adesione con la Natura (materiale, vegetale, animale, umana), che sa tutto e resta indifferente, passando dalla tenebra all’azzurro alla porpora e all’oro. Sembra essere presente in quest’opera la figura del “perturbante”, una delle categorie estetiche del Novecento17 [Freud, Das Hunheimliche, 1919; Antony Vidler Il perturbante dell’architettura 2006]: qualcosa di “spaventoso” che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare; qualcosa che genera quotidianamente inquietudine, angoscia, disagio e produce “il male di vivere”. Una sorta di “spaesamento” che deriva dall’incapacità di stabilire quanto un “oggetto” sia jn effetti vivo e reale; nel nostro caso quanto siano ancora vivi per il poeta e la sua stessa esistenza concreta di ogni giorno i suoi morti. Questa situazione in psicologia viene definita anche come “dissonanza cognitiva”; è la condizione del “non raccapezzarsi”, che porta a voler ripartire da zero e in Pascoli caratterizzata proprio dal riaffiorare del desiderio di tornare nel grembo materno.

Proprio perché si è compreso presto che le poesie di Pascoli non potevano essere semplici bozzetti, i critici letterari e gli psicologi si sono cimentati nell’opera di scavo nel profondo e nell’interpretazione della sua poesia.

Elio Gioanola (Sentimenti filiali di un parricida in Psicanalisi,Ermeneutica, Letteratura 1991), avverte opportunamente che gli aspetti psicopatologici degli Autori non sono mere curiosità biografiche, ma stanno in profonda relazione con i contenuti delle loro opere. In effetti ci sono aspetti della vita dei poeti che vengono ignorati o volutamente trascurati dai curatori delle Antologie, per non sciupare l’ “immaginetta” e potersi così inventare personaggi fuori dal tempo18. Gioanola rammenta che Pascoli doveva far fronte agli attacchi di malinconia, ai complessi di inferiorità, alle ombre paranoidi che gli facevano vedere in tutti i colleghi dei nemici; accenna alle delusioni politiche, ai mesi di carcere, all’assillo della povertà. Lo conferma del resto la sorella Maria, la quale ricorda come Giovanni Pascoli cercasse di dominare questi nefasti stati d’animo col vino. Gioanola suppone che Pascoli in più si sentisse – per così dire- “parricida” 19, avendo odiato il padre per averlo mandato in collegio a sette anni e che abbia cercato in tutte le sue opere, evocandolo, di liberarsi dal suo senso di colpa.

Cesare Garboli (Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, Einaudi 1990) oltre a mettere in luce le doti di un poeta tanto musicale e struggente, reso felice dal gioco linguistico, accenna ad una storia incestuosa, ad un legame inquietante soprattutto tra Giovannino e Ida20, per altro non suffragato né da testimonianze né da prove; anche Valentino Andreoli (I segreti di casa Pascoli) dà credito all’idea di un legame ambiguo tra i tre fratelli e parla di un rapporto particolare di Giovanni con Ida, fatto di amore e di attrazione fisica; Pascoli la rappresenta sempre nella sua carnalità; da psicologo e psichiatra ne deduce che Ida è nient’altro che la proiezione della madre tanto adorata, mentre il poeta stesso si immedesima nel padre morto. Andreoli parla quindi di personalità con caratteristiche infantili, con un Edipo non risolto, una forte fragilità emotiva e una dipendenza dall’alcool che lo porterà alla morte.

Quando scrisse La mia sera Pascoli aveva 48 anni, a 57 morì forse di cirrosi. Sì, forse si era sentito in colpa per tutta la vita per essere sopravvissuto ai suoi, per non avere avuto il successo economico cui aspirava, per non essere veramente riuscito a farsi benvolere e sostenere dal suo maestro Carducci e infine per non essere neppure riuscito ad avere un buon rapporto con tanta gente semplice di Castelvecchio. Ha sempre temuto il futuro e rimpianto il grembo materno.

In conclusione potremmo dire che il Pascoli non è il poeta delle piccole cose e delle brillanti descrizioni naturalistiche, per dirla con Sanguineti è piuttosto il poeta che “sprofonda all’indietro, che passa dalla Cultura alla Natura”, dal mondo della vichiana Civiltà dispiegata a quelli del Senso e della Fantasia ; è il poeta della regressione al “materno originario”, un luogo idealizzato, purificato e artificioso, non realistico, nel tentativo di sfuggire ad una realtà insoddisfacente, che non riesce a controllare e che vorrebbe cancellare, e ad un passato che riemerge sempre ossessivo con le stesse immagini e gli stessi simboli.

1Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, memorie curate da Augusto Vicinelli

2Si rappacificarono soltanto nel 1903.

3Gli scoppi: come non accostarli alla gragnola di disgrazie che colpirono Pascoli dopo la morte del padre?

4Interessante il dato onomatopeico frag/frang come nell’aggettivo fragoroso

5Alcuni commentatori lasciano trasparire finanche un significato esoterico in questi versi, ricordando che Giovanni Pascoli fu un “fratello massone” della loggia Rizzoli di Bologna: le stelle richiamerebbero l’idea di una Provvidenza divina che finalmente e silenziosamente fa giustizia e salda tutti i conti in sospeso.

6Nei “Canti di Castelvecchio” il Poeta dedica una lirica intera alle rane ( Io sento gracchiare le rane dai botri dell’acqua piovana nell’umida serenità ): il gracidare delle rane è paragonato allo strepito di un “treno nero”, a qualcosa di funebre

7Come non notare il gioco delle “i” e delle “e” e delle consonanti vibranti (tr) che trasmettono la sensazione del fruscio.

8il 29 Ottobre 1901

9Pascoli trascorse nove anni della sua fanciullezza nel collegio degli Scolopi ad Urbino; ne avrà pure risentito nella sua formazione spirituale. Convenzionalmente nella Liturgia delle ore e del Breviario una giornata si divide in cinque parti : alba (0-5),  mattino (5-9) ,giorno (9-17),  sera (17-21),notte (21-24); l’ultima sera è dunque il periodo di tempo prima che faccia notte

10“Ti prego di pensare a chi sta peggio, a chi qualche volta, per esempio a Messina, levandosi dal letto, stanco, addolorato, con la testa vacillante, si augura spesso fin dalla mattina di morire “ (Maria Pascoli 1903 cit.)

11Sono i cosiddetti colori caldi. La porpora rappresenta la regalità e l’energia, l’oro la luce solare, il benessere, la saggezza

12“Io credevo la novità dell’Ida come una specie di sfacelo della mia piccola famigliola” 1903; in una lettera a Berti del 25 Maggio 1900 scrive: “vediamo che s’apre il tempo sereno, il tempo del mietere…Il mio grano s’è maturato molto lentamente”

13( Il giorno dei morti : i figli morti stanno avvinti al padre / invendicato. Siede in una tomba/ io vedo, io vedo in mezzo a lor mia madre……in questa notte che non mai declina/orate requie, o figli morti, ai vivi ..) .

14“E sono anche qui campane e campani e campanelle e campanelli che suonano a gioia, a gloria, a messa, a morto; specialmente a morto. Troppo? Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico.” Dalla Prefazione ai Canti di Castelvecchio.

15[Lettera al Marchese Ferdinando Guiccioli, Bologna 10 marzo 1912 ].” Ruggero si accasò a San Mauro, vi ebbe molti figli,tra i quali noi due, e morì tragicamente, assassinato sulla strada maestra, non si sa da chi, non si sa perché. La voce pubblica trova il perché nella bramosia di succedergli e diventar ricco, dove a lui bastava rimanere galantuomo; il perché preso a pretesto fu forse l’aver egli aderito a Cavour e al partito nazionale . Il fatto è che il 10 agosto 1867 rimasero abbandonati nel mondo otto orfani dei quali la maggiore non aveva 17 anni e morì l’anno dopo precedendo di un mese la madre affranta dal dolore . Così di morte in morte, io che ero il quarto sono diventato il primo e Maria è restata quella che era, l’ultima creata forse a consolare delle traversie e delle sventure, a confortare e animare nei tanti scoraggiamenti, il suo fratello che ella ama e che egli ama unicamente. Così ci facciamo compagnia, primo ed ultima, finché non venga il giorno della pace “.

16[Lettera al Marchese Ferdinando Guiccioli, ibidem.].

17In particolare in Edgar Allan Poe

18Divertente la pagella nascosta dell’esame di maturità [Presidenza Liceo Dante. Scritti: Italiano 8, Latino 7, Greco 8, Matematica 6. Orali : Italiano 8, Latino 8, Greco 8, Storia e Geografia 6, Filosofia 3, Fisica 4, Storia Naturale 3, Matematica 2.

19“La prima notte di collegio fu per lui di grande sconforto. Piangeva, singhiozzava forte, solo, nel suo lettino. Non poteva addormentarsi senza la sua mamma, che sempre la sera al suo letto pregava con lui. E sempre gli suggellava gli occhi con i suoi baci “(Maria Pascoli, Lungo la via di Giovanni Pascoli p.1)

20Ida era la penultima di dieci fratelli , due anni più anziana della sorella Maria. Massa 1886 dice di lei il poeta “il breve serto degli aurei capelli” e in un disegno la tratteggia a seno nudo con il pube coperto dai capelli

Francesco Gherardini

Commento alle poesie di MARIO LUZI “VOLA ALTA, PAROLA” ed “IL PIANTO SENTITO PIANGERE”, della dott.ssa Prof.ssa Nara Pistolesi

VOLA ALTA, PAROLA

Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami
nel buio della mente –
però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, sii
luce, non disabitata trasparenza…

La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?

(Mario Luzi)

Commento della prof.ssa   Nara  Pistolesi   Liceo classico Volterra

Mi è tornata alla memoria questa poesia ascoltando i poeti che hanno partecipato alla “Maratona poetica per Volterra” dal titolo significativo “La ferita, il volo”, organizzata all’interno di VolterraTeatro 2014, da un’idea dei poeti Alessandro Agostinelli e Roberto Veracini per dare voce alle riflessioni generate dalla frana che ha colpito le mura medievali della nostra città. Durante la serata le parole “poesia” , “parola” sono risuonate spesso accanto a “volo” “volare” – in tutte le sue forme – e a “speranza”, “vita”, “ferita”, “dolore”, “sofferenza”. Nella  poesia di M. Luzi, inserita nell’opera Per il battesimo dei nostri frammenti uscita nel 1985, alcune delle parole suddette ed il loro profondo significato vengono inscindibilmente legate ad esprimere il valore e la funzione della poesia  stessa.

Il poeta affida alla parola, quindi alla poesia, il compito di volare “alta”, aggettivo che rimanda al suo complesso significato latino che indica insieme  altezza e profondità;  subito dopo, infatti, si esorta la parola a crescere “in profondità”, toccando “nadir e zenith” della sua “significazione”, a lanciarsi con pari forza in alto e nel profondo. Solo questo slancio duplice permetterà alla ‘parola’ di mantenere il contatto con l’io, con “il caldo di me” ed essere, quindi, “luce” per chi scrive e per chi legge, non “disabitata trasparenza”, una bellezza priva dell’ ‘uomo’ e del suo calore.

In questo suo percorso verso l’alto e nella profondità dell’io e del mondo la ‘parola’ acquista una immensa capacità espressiva, può aspirare a divenire “luce” , secondo Luzi, in quanto si carica di calore umano, si fa memoria, dà voce all’ “anima”, dà voce alla “sofferenza”, è ‘vita’. La metafora della luce non implica lo svelamento di una verità che dia risposta agli interrogativi dell’animo umano, ma illumina la ‘verità’ insita nell’animo umano stesso: un insieme di speranza e di dolore,  di attese e di sofferenze. Gli interrogativi rimangono, come dimostra il verso finale: non solo quelli relativi alla vita stessa e al senso dell’esistenza vista nella sua complessità, ma anche quelli che indagano il valore profondo della ‘parola’. Questo valore, però, non può prescindere da un rapporto  con l’io, la sua ‘sofferenza’, la sua ‘anima’.

Significativo è l’inciso ai vv 3-4: “sogno”, apposizione di “parola”, potenzia ulteriormente il desiderio del poeta di riuscire a esprimere, a ‘chiamare fuori’ (“esclami”) con pienezza “la cosa” inscindibilmente unita al suo calore vitale. Il “sogno” si staglia nel “buio della mente” come una luce calda.

Mi viene in mente un altro testo, estremamente attuale,  tratto dalla medesima opera di  M. Luzi che dimostra  emblematicamente questa forza della poesia: Il pianto sentito piangere

.

Il pianto sentito piangere

                                       nella camera contigua

di notte

         nello strampalato albergo

                                               poi dovunque

                                                                   dovunque

                                                                            nel buio danubiano

                                                           e nel finimondo di colori

di ogni possibile orizzonte

                                        dilagando

                                                      oltre tutti i divisori

                                                                            delle epoche

                                                                            delle lingue

sentito bene sentito forte

                                    nel suo forte rintocco di eptacordio

e rimesso nel fodero di nebbia

                                               del sonno

e della non coscienza

                                      riposto nel buio nascondiglio

del sapere non voluto sapere

                                           fino a quando?-

Mario Luzi

 

La parola poetica, la versificazione, il ritmo esprimono con forza la sofferenza, il dolore dell’animo in cui si riflette la sofferenza del mondo. Anche in questo caso un’interrogativa chiude la poesia: il mistero della vita e del dolore rimangono, ma attraverso la poesia questo mistero emerge, acquista voce e diviene stimolo per la riflessione. Anche in questo testo mai si perde il rapporto tra la parola e la sua significazione, non c’è un minimo elemento che non sia essenziale all’espressione. Si potrebbe richiamare alla memoria il “sentire e meditare” alla base della poetica manzoniana che ritorna nella differenza che Saba individua tra la poesia di Manzoni e quella di D’Annunzio: nei versi del Manzoni c’è “la costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione” mentre D’Annunzio “si esagera o addirittura si finge passioni ed ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento”; quest’ultimo “si ubriaca per aumentarsi”, “l’altro è il più astemio e il più sobrio dei poeti italiani”.

Afferma il poeta Pierluigi Cappello:”Non esiste altro lessico se non il tuo in poesia; e quel lessico deve accordarsi con lo sguardo tuo proprio, deve intrecciarsi alla relazione che il tuo sguardo stabilisce con i tuoi sensi e che i tuoi sensi stabiliscono con il mondo, finché il lessico stesso, le parole stesse diventano relazione. Un intreccio da cui una forma di verità molto parziale, la tua, si sviluppa e cresce con il tuo respiro” (Questa libertà, RCS libri, Milano 2013, pg. 65).

La grande “maratona poetica” che ha animato la Pinacoteca di Volterra il 26 Luglio scorso ha veramente fatto emergere questa potenza della poesia. Attraverso una “cordata di corpi e parole” – come si afferma nella presentazione dell’evento – ha unito nadir e zenith: dalla profondità della ferita della terra che ha stimolato ad ascoltare “la ferita più profonda che ci portiamo dentro”, è spiccato il volo verso l’alto per ripartire con speranza e fiducia e “tornare a vedere meglio il mondo” e noi stessi.

Nara Pistolesi