LA POESIA ‘ Non chiederci la parola’ di E. Montale: commenti di F. Gherardini, P. Fidanzi, P. Pistoia

NON CHIEDERCI LA PAROLA

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

 COMMENTO DELE DOTT. PROF. FRANCESCO GHERARDINI

Tre quartine di varia lunghezza con rima baciata nelle prime due e alternata nell’ultima, con versi endecasillabi e alessandrini (vv. 2 e 10). Presenza di alcune figure retoriche: enjambements (vv. 3-4 croco/perduto), similitudine (v. 10 storta sillaba secca come un ramo), anafora (v.12 ciò…ciò), rima interna (siamo…vogliamo),epifonema finale.

Celeberrima lirica, da  mezzo secolo letta e commentata in scuole di ogni ordine e grado, sminuzzata, sviscerata in ogni sua parte, suggestiva  perché fissa la condizione umana e spinge anche alla riflessione storico-filosofica; al punto che , dopo tante dissezioni forse non resterebbe ad un nuovo commentatore che produrre “citazioni” di esegeti più o meno noti. Un’ avvertenza:    sostiene Edoardo Sanguineti  [Ideologia e linguaggio, Milano, 2001]  che  il primo gesto di chi spiega  è citare, ma il discorso critico finisce sempre  al di là del  testo e delle citazioni  perché “il commentatore parla di sé: non spiega il classico, ma si spiega”. E’ grosso modo quello che  sta accadendo anche a me  in un percorso accidentato di riflessione interiore.

Già dal titolo le domande si affollano: “Non chiederci”. Imperativo negativo. Chi chiede a chi? Chiederci equivale chiedere a noi. Noi  chi? Chi sono i noi? I coetanei del poeta? L’intera  sua generazione? I poeti del suo tempo? Ci sono forse persone che  pretendono da questi poeti una parola definitiva? I poeti l’hanno già cercata/trovata? L’hanno già espressa e quando? La riflessione sottesa ai versi non riguarda evidentemente lui soltanto, ma molti; Montale usa sempre riferimenti al plurale (chiederci, domandarci, possiamo, siamo, vogliamo). La lirica ha dunque  un’attinenza speciale alla realtà di  quel tempo, gli anni venti, i primi anni venti del  “secolo breve”?

Montale  scrisse il testo  nel luglio 1923 e lo pubblicò – eliminando qualche variante   dissonante “croco/ di margherita” sostituito con “croco/ perduto” –  nel 1925 in “Ossi di seppia”. Il 1923. L’anno in cui Freud pubblicava “Das Ich und das Es” e Svevo “La coscienza di Zeno”; l’anno del Putch nazista di Monaco di Baviera e dell’assassinio di Don Minzoni; l’anno in cui nasceva la Costituzione sovietica dopo il terribile bagno di sangue del primo conflitto mondiale e della Rivoluzione d’Ottobre;  un anno in cui emergeva prepotentemente la  crisi dell’Io e si manifestava già con sufficiente chiarezza la barbarie dei Totalitarismi; un tempo nel quale esplodeva la crisi della Ragione, mentre avanzava, tracotante e sicuro di sé, un Nuovo di cui pochi avevano compreso il pericolo. E’ allora una poesia “politica”? Qualcuno l’ha sostenuto, Montale l’ha sempre negato (”Leopardi non si è mai occupato di politica”). Resta il fatto che a posteriori spesso è stata interpretata sotto questa luce.

La poesia si  articola in tre quartine, che forse potrebbero meglio essere rappresentate come una sorta di  sillogismo (III) con la premessa maggiore [Noi, alcuni uomini (poeti?), non abbiamo  certezze taumaturgiche], la minore [Altri ne hanno fin troppe] e la conclusione [Noi possiamo solo dire ciò che non vogliamo]. “Nessuno chieda a me / alla mia generazione di spiegare come e perché il mio animo sia così privo di  certezze, né pretenda da me parole di fuoco  ”afferma  in sostanza Montale nella prima quartina. Il poeta è ben consapevole  del suo stato d’animo; sa di non possedere verità, di vivere in un mondo e in un tempo in cui  ogni certezza assoluta è crollata o sta crollando, in cui  vacillano la Religione, i valori Assoluti e la Ragione è  in piena crisi; un tempo in cui il Dubbio  domina e sovrasta la scena, perfino nelle Scienze, nella matematica. In quegli anni non si capisce più neppure quale sia la realtà materiale circostante; che evapora: l’atomismo  diventa la tesi filosofica fondamentale per lo studio della realtà; la costituzione atomica della materia con i sempre più nuovi e numerosi costituenti [di questi anni è la scoperta di elettroni e protoni], con la prevalenza  degli spazi interatomici, dà l’idea di una materia inafferrabile e mutevole senza che si possa giungere a un punto fermo. Questa concezione scientifica finisce per estendersi  alla società , atomismo diventa pluralismo, ci si apre all’idea di una pluralità di elementi etici ed esistenziali senza che vi sia la prevalenza di nessuno; si avvia un indirizzo ontologico che vede la conoscenza come approssimazione continua, come processo; una conoscenza di natura congetturale, ipotetica, probabilistica senza più certezze universali. Si afferma anche un’idea critica nei confronti dello storicismo e dell’ idea positivistica/marxista di progresso infinito, di un’ideologia che potrebbe  portare al dogmatismo, all’autoritarismo, al totalitarismo.

La poesia di Montale si muove in questo mare, risente di questa temperie culturale. Il poeta confessa la sua inquietudine  insieme con l’incapacità di comprenderla fino in fondo. Così  nella seconda quartina rileva, con una punta di invidia e insieme di disprezzo, che  mentre  in molti  è presente il “male di vivere”, ci sono soggetti sicuri di sé, concentrati sul proprio interesse personale, individualistico e capaci di aggregare  altre persone, soggetti che non si rendono neppure conto della loro “ombra”  ossia del loro lato oscuro e  della loro precarietà.  Come non pensare a quanto gli sta accadendo intorno; spuntano gli interpreti del “volksgeist”, nascono i nuovi regimi totalizzanti e totalitari, che si basano su valori non negoziabili a priori e sulla “convinzione coatta”, costruita con l’uso della forza ; viene contestata e annientata la pur traballante democrazia.

Infine la conclusione. Non c’è una formula magica che possa sconfiggere il male di vivere, che è connaturato con l’esistenza stessa dell’uomo, né che possa  vincere il dubbio; noi uomini (ma anche i poeti) possiamo soltanto abbozzare  qualche risposta, avanzare nel dubbio sempre incombente qualche proposta, ma in definitiva possiamo dire semplicemente ciò che non vogliamo essere e ciò che desideriamo che non accada.  La verità non è data, va ricercata proprio grazie al dubbio metodico: questa è la condizione umana e da questo ambito l’uomo non può, ma anche non deve uscire; non ci sono verità assolute, incontrovertibili, definitive; alla verità ci si avvicina per gradi ed è sempre provvisoria; l’uomo deve avere la consapevolezza piena dei suoi limiti (qualche storta sillaba) e di una ricerca che non ha fine, deve vivere nel e del dubbio. Non c’è nessuna catarsi, né nessun “uomo nuovo”, ma solitudine esistenziale e parzialità. Non ci sono parole che possano assolverci dall’obbligo di pensare, di lasciare spazio alle nostre emozioni, alla nostra sensibilità, anche se molti presuntuosi e superficiali, che non conoscono neppure se stessi e la realtà difficile che li circonda, credono di avere e diffondono sicurezze incrollabili. Non c’è  nessun poeta, nessun vate, in grado di fornire la parola risolutiva!

Questa conclusione (l’epifonema) che ha indotto i critici a parlare di “angoscia esistenzialistica” e di “teologia negativa”, di una mentalità pessimistica scaturita dalla sua intransigenza morale, dal suo sentirsi un isolato, un uomo perennemente perplesso e in fondo cinico, oggi possiamo valutarla in un modo meno drammatico; Montale ha tratteggiato la realtà effettuale, quella realtà (il vero) che sfugge ad ogni  tentativo razionale di penetrarne la segreta essenza, di trovarne il senso ultimo.

Ad illuminare questa realtà  è uscito nel 1979  un saggio di Jean François Lyotard (nato nel 1924!)“ La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, una nuova visione della società fondata sulla fine delle credenze nei sistemi speculativi ed emancipativi assoluti e una disillusione e liquidazione del progetto dell’Aufklarung” ; un pamplhet  suggestivo e paradossalmente chiarificatore. Lyotard, il teorico della postmodernità,  non prova alcun rimpianto per l’unità e la totalità perduta (il monismo contrapposto all’atomismo). Egli ritiene  che si debba  prendere atto del  processo in corso, contribuire alla sua affermazione  attraverso pratiche di “regionalizzazione” dei campi del sapere, sono finite le credenze e i sistemi emancipativi assoluti, insieme con la concezione cumulativa del sapere, sono ormai liquidate le Ideologie; la società è sempre più complessa; è impossibile conoscere tutto, siamo nell’ epoca che Max Weber definì del “disincanto”. Allora diventa indispensabile ritrovare/riconoscere la positività : essa sta in ciò che è molteplice, frammentato, polimorfo e instabile.

Queste tesi  si contrappongono  con forza a sistemi di pensiero globalizzanti (es. le fedi religiose, il  marxismo); sono finiti i grandi sistemi teorici.  “Quella che stiamo vivendo è una stagione sconvolgente, attraversata da mutamenti rapidissimi, che lasciano in piedi le condizioni di stabilità per tratti brevissimi, lo spazio di un mattino travolto dalle trasformazioni scientifico-tecnologiche. Ciò che definisce l’essenza della condizione post-moderna, è proprio la negazione della capacità umana di chiarificazione: questa condizione si fonda sul disconoscimento della sussistenza di valori ultimi, in grado appunto di chiarire, cioè di fondare, giustificare, legittimare un qualsiasi ordinamento della società, di motivare e orientare comportamenti, di conferire un senso unitario e quindi un’effettiva intelligibilità alla vita umana e alla società. […] Il sapere postmoderno produce l’ignoto, ovverosia conosce la “regionalità” delle proprie conoscenze e le “catastrofi” in cui cade nel momento in cui tenti di comprendere più di quanto le sia consentito dai propri strumenti e dal proprio “localismo”.”

E Zygmunt Bauman (nato nel 1925!) precisa ancora meglio che non ci sono più contorni nitidi,  definiti, fissati una volta per tutte; anche le relazioni umane sono diventate precarie, gli uomini non si vogliono più sentire ingabbiati; non c’è nessun mondo perfetto e nessuna ideologia è capace di crearlo…e nel 2003 in TV in poche battute  attacca  l’idea dell’armonia e del consenso universale, la considera superata: ”in essa c’è un odore davvero spiacevole di tendenze totalitarie…alla fine questa è un’idea mortale perché se davvero ci fosse armonia e consenso che bisogno ci sarebbe di tante persone sulla Terra? Ne basterebbe una, lui o lei  avrebbe tutta la saggezza, tutto ciò che è necessario, il bello, il buono, il saggio, la verità. Penso che si debba  essere realisti. Probabilmente dobbiamo considerare incurabile la diversità   del modo di essere umani, si può essere persone in tanti modi e questa è una benedizione.”.

Alla luce di queste considerazioni anche la chiusa  “negativa” di Montale cambia aspetto.  “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/sì qualche storta sillaba e secca come un ramo./Codesto solo oggi possiamo dirti,/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.” diventa un invito a vivere in un mondo “vero”.

Dott. Prof. FRANCESCO GHERARDINI

COMMENTO DEL DOTT.  PAOLO FIDANZI ALLA POESIA “NON CHIEDERCI LA PAROLA” di E. MONTALE

Non chiederci la parola…… è un osso di seppia( 1925-1928) particolarmente suggestivo, forse il più indicativo della fase iniziale della poesia montaliana, impegnato nella ricerca di nuova musicalità (Minstral di Debussy) e coinvolto nel pre-esistenzialismo d’incipit (botroux , bergson….) quale era e forse rimane a lungo la caratteristica principale della sua spinta creatrice. D’altra parte Montale afferma come sua prerogativa, e siamo già nel 1971, in un’auto intervista sul Corriere della Sera di un lasciarsi scrivere da qualcuno.”IN UN CERTO SENSO IO MI LASCIO SCRIVERE….DA LUI, E NON E’ NECESSARIO DARE UN SIGNIFICATO MISTICO AL MIO INTERLOCUTORE. TUTTAVIA E’ VERO CHE IO SOTTINTENDO SEMPRE LA PRESENZA DI QUALCUNO CHE IL LETTORE PUO’ IDENTIFICARE A PIACER SUO.”
Ecco arrivati al soggetto del primo verso della nostra poesia”NON CHIEDERCI……”, che ci introduce nella richiesta di chiarezza (parola) che il poeta fa a se stesso e agli altri riguardo all’essenza dell’animo umano, ma ancora più precisamente riguardo al senso della nostra vita.
Studia e scandaglia lo spazio preferito (un’umile polveroso prato) per declamare qualcosa che altro non può essere che sillabato, (l’auroralità infantile di zanzottiana memoria), seppur modulando il ritmo e addolcendo l’armonia. Ma questo non basta che a denunciare la vana sicurezza dell’uomo moderno (ah, l’uomo che se ne va sicuro…) che pur nella sua goffa cominicazione resta preso dalla solitudine di massa che ha sostituito l’idea sentimento dell’uomo originale con l’idea-mente alla ricerca della sopravvivenza fisica e materiale.
E termina con la desolante certezza, non c’è grande ottimismo ancora in questo Montale, neppure quello suggerito dalla ragione, chiedendo che l’uomo sia risparmiato dalla constatazione dura della sua impossibilità e del suo limite. Ma in questo percorso è costretto invece ad ammettere qualcosa, anche se è solo negazione, ritrovando però, nel dubbio esistenziale la speranza che un domani qualcosa possa cambiare:” solo questo OGGI possiamo dirti..”
Tanto è vero che a distanza di quasi cinquanta anni dalla scrittura degli “Ossi” Montale alla domanda:”Come guardi oggi al tuo libro giovanile? E’ molto cambiato il tuo raporto con il mondo, da allora?” risponde:”SONO UN PO’ MENO PESSIMISTA (PER ME) MA MOLTO DI PIU’ PER QUANTO RIGUARDA IL MONDO. IL MONDO E’ NATO DA UN’ESPLOSIONE(IL BIG BANG DI UNA MIA POESIA) O DA UN’INTENZIONE? NESSUNA DELLE DUE IPOTESI SODDISFA. TUTTAVIA UNA VOLTA ELABORATO IL CONCETTO DI DECENZA, IO HO ACCETTATO COME OBBLIGO QUESTO CONCETTO.”

Dott. Paolo Fidanzi

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NOTE E RIFLESSIONI AL MARGINE DELLA POESIA DI MONTALE ”NON CHIEDERCI LA PAROLA”
Il significato filosofico
di Piero Pistoia

In generale ritengo che le idee spesso espresse sul senso filosofico della poesia di Montale siano condivisibili e d’altro canto riassumano la nota tendenza della Filosofia della Conoscenza attuale.
Mi piace però ancora pensare che il “tacere” (<<Di quello di cui non si può parlare si deve tacere>>, settima ed ultima proposizione del “Tractatus logico-philosophicus”) di Wittgenstein si riferisca all’impossibilità di un’analisi logica delle esperienze del mistico, lasciando aperte altre possibilità. D’altra parte sarebbe forse da distinguere 1) il modo in cui il mistico attua l’esperienza, 2) il contenuto e la descrizione dell’esperienza e 3) il significato di essa: non sono un esperto e non so se questi tre aspetti siano da considerarsi allo stesso modo dal punto di vista del linguaggio. Non dovrebbero essere trascurate inoltre le esperienze degli Sciamani (Lucien Levy-Bruhl “La mentalità primitiva” Einaudi, 1966).
Credo anche che le società moderne per loro natura non abbiano mai investito sufficienti energie e risorse in questi campi di ricerca.
Spesso nelle esperienze mistiche e forse magiche, dove per pochi secondi soggetto e oggetto si fondono nella stessa unità primordiale, le descrizioni sono vaghe e soggettive: “il Tao che può essere espresso non è il vero Tao”. Ma, per esempio, nel caso della situazione di Einfuhlung (immedesimazione) nella ricerca scientifica, mi sembra, che le cose siano leggermente diverse (si pensi all’ipotesi creativa che risolve un problema cruciale del mondo). Se questo fosse vero, forse sarebbe possibile non solo pronunciare qualche sillaba, ma balbettare qualche parola e sarebbe già qualcosa in termini di principio.
Comunque il ricercatore non accetterà mai l’idea che ciò che cerca non esista, al massimo potrà convenire di non essere ancora riuscito a guardare nel posto giusto fra un’infinità di posti in cui cercare.
Ma forse siamo davvero intrappolati in un “trabocchetto per mosche” (Wittgenstein), costituito da una bottiglia la cui sommità è un imbuto rovesciato. Dall’interno l’unica apertura appare alla mosca come la soluzione meno probabile e la più irta di ostacoli e da essa distoglie l’attenzione. E’ meno gravoso organizzarsi all’interno della trappola che trovare la via.
Come uscire allora da questa trappola che, metaforicamente, rappresenta la nostra inadeguatezza nella soluzione dei problemi conoscitivi? Data la configurazione, le soluzioni andranno cercate nei luoghi più improbabili, fuori dalle credenze comunemente accettate, al di là delle abitudini di pensiero, negando cioè tutto ciò che compone il nostro attuale sistema di riferimento: la soluzione è infatti dove c’è più rischio. Non per niente spesso ci si accorge poi che ogni fatto che sia stato oggetto di rifiuto più astioso e viscerale e limitato dalle repressioni più crudeli, stranamente, possedeva la sconcertante capacità di porre problemi insidiosi, ma che schiudevano nuove vie.
All’interno, quindi, il quadro concettuale appare coerente e privo di contraddizioni: il sistema di credenze, “dentro”, si auto-giustifica continuamente e tutti gli atti (osservazione, giudizio, valutazione…) vengono compiuti dal punto di vista particolare del sistema stesso. Se vogliamo uscire è necessario inventare un nuovo e inusitato sistema di certezze da cui “guardare” la situazione: E’ allora che riusciamo a individuare improvvisamente l’apertura. Una volta usciti ci troviamo però in un’altra trappola che ingloba la prima e così via all’infinito: ciò che progredisce è solo l’adeguatezza delle teorie (fitting e non matching) che diventano sempre più funzionali ai nostri fini.
E’ possibile con un atto creativo (mistico o magico o di altra natura non logica) uscire dall’insieme indefinito di “trappole per mosche”? Non lo so; il Costruttivismo Radicale ed altri che hanno interpretato la poesia di Montale affermano di no; io spero di sì.
Questa configurazione indeterminata di trappole includenti sarebbe poi la conseguenza di un’ unica trappola inesorabile, cioè l’impossibilità totale della distinzione fra soggetto e oggetto. L’Io stesso è la visione dell’Universo, affermava il premio Nobel per la Fisica Schroedinger. Il confine di separazione fra Io e Universo si perde in frattali indefiniti e la sua ricerca rincorre descrizioni, di descrizioni, di descrizioni…. La poesia di Montale, sottolinea questa impossibilità di raggiungere tale limite da “dentro” (Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe…) e da “fuori” (Non domandarci la formula che mondi possa aprirti…).

Quindi come nell’incisione: “Galleria di Stampe” di Escher (vedere figura anche cercando Galleria di Stampe nel Blog), l’Io, in basso, osserva un mondo (nave e fila di case lungo costa), che si trasforma nel substrato che lo produce (casa d’angolo in alto a destra dove si apre proprio la galleria dov’è l’Io che guarda). Non esiste alcun luogo da dove uscire: se tentassi di farlo (risalire all’inizio di un mio pensiero o idea) mi troverei nel bel mezzo di un frattale in continua regressione, perdendomi in una infinità di dettagli e interdipendenze (il circolo interminabile che sfuma nello spazio vuoto al centro della figura).
Ma allora il Paradosso non è semplicemente una curiosità intellettuale, ma si nasconde fra le pieghe dello stesso atto conoscitivo: correndo lungo un ramo di iperbole, non è da escludere che, in questi contesti, i due professori-medici (il Corvo e la Civetta) del libro  ‘Pinocchio’, spesso ricordati con maestria e precisione, avessero ragione ambedue sulla strana diagnosi circolare sul burattino.
Da questo insieme compenetrato e circolare di Io e Universo è mai possibile saltar “fuori”? Dio è in grado di trarci da questa trappola in cui ci troviamo inesorabilmente da sempre? Sta qui il Guadagno nell’ammettere ogni tanto, contro il “Rasoio di Occam” (Non est multiplicanda entia praeter necessitatem“), anche se a probabilità quasi zero, qualche Messaggero di Dio che ci illumini. O forse anche Dio fa parte di questo circolo e non esiste realtà “là al di fuori” del ciclo? O, ancora, Dio potrebbe far parte di un Circolo a livello superiore inglobante il precedente (Dio-Creazione-Dio), fornendo altri significati all’Universo?
Lo stesso grande filosofo e mistico Plotino non incoraggiò forse a guardare in se stessi anziché all’esterno, perché da dentro è possibile contemplare il Nous (Spirito-Intelletto), che è divino, nel quale è scritta la struttura profonda dell’Universo? Dopo millenni e millenni di dibattiti, argomentazioni, teorie, modelli, meditazioni, contemplazioni, immedesimazioni sofferte, miti e religioni, speranze, è questa l’unica e ultima risposta: che siamo dentro una trappola senza possibilità di uscita definitiva? Sarebbe veramente il massimo dell’ironia se fosse l’unica proposizione linguistica che un mistico possa formulare,
senza contraddire Lao Tse, forse che l’Io costruisce un mondo “a propria immagine” più o meno “adeguato”, senza essere consapevole di farlo, poi “sente” questo mondo, “esterno” e indipendente da sé stesso, infine costruisce l’Io a fronte della realtà di quel mondo ritenuto oggettivo!
Le conseguenze positive che ne derivano sul piano sociale (tolleranza, e pluralismo, responsabilità personale, distacco dalle proprie percezioni e valori a favore di altri…), certamente non bilanciano l’ambito circolare in cui rimane imprigionata la creatività umana.
Il testo sul Costruttivismo Radicale (Vàrela ed altri), a cui nell’articolo faccio continuamente riferimento, ora per descrivere, ora per commentare e argomentare, è: A.V. “La Realtà inventata” Feltrinelli, 1990.
Per evitare fraintendimenti, vorrei infine sottolineare che lo scopo ultimo di questi interventi, volutamente provocatori, non è tanto quello di raccontare o insegnare qualcosa, ma è quello di suscitare perplessità fino a perturbare e quindi suscitare curiosità tali da spingere, in principal modo i giovani intellettuali, a leggere i titoli indicati o le opere degli autori nominati ed altri simili  (libri disponibili in qualsiasi Biblioteca Comunale che si rispetti), anche al solo scopo di poter affermare che ne ho travisato completamente i significati.

Piero Pistoia

La poesia onesta del prof. Roberto Veracini

La poesia onesta

(Il tempo lento della poesia)

Vorrei partire da un’affermazione di Umberto Saba (“Ai poeti resta da fare la poesia onesta”), che per me è ancora oggi – anzi, soprattutto oggi –  condivisibile.

Ma che cosa s’intende per poesia onesta?  Per esempio una poesia che non ha paura del sentimento e di tutto ciò che esso comporta: è importante ricercare il sentimento (ma in senso forte, romantico, direi) perché credo sia quello che dà un senso effettivo alla vita, al di là della facile retorica; non bisogna aver paura di esprimerlo, perché la vita è comunque passione, sofferenza, gioia e tutto questo va espresso con forza, con coraggio, senza mai passare quel limite, oltre il quale si scade nel sentimentalismo, l’arte cinica di voler commuovere (il confine talvolta è quasi impercettibile, il rischio incombente, ma  necessariamente da correre)…Una poesia onesta è una poesia che s’immerge nella realtà e cerca di coglierne l’essenza, una poesia nuda, autentica, perché è solo l’autenticità che dà profondità…Una poesia insieme semplice e intensa, leggera e profonda, come il cielo evocato da Edmond Jabès negli occhi abbassati di chi scrive (“Mentre scrivi hai gli occhi rivolti in basso, ma il cielo è nei tuoi occhi”)…Una poesia che si oppone alla superficialità, alla fretta, al pressappochismo, una poesia che si sofferma sulle cose, guarda, ascolta, prende il suo tempo, un tempo lento, lentissimo…

Il tempo della poesia è inevitabilmente sovversivo, specie nella realtà che stiamo vivendo,  perché è un tempo verticale, va in profondità, non scorre via, ma si pianta nelle persone e nelle cose, mette radici, produce memoria, richiama agli elementi fondamentali dell’esistenza, a qualcosa di solido, di vero, a qualcosa che resta comunque (v. Foscolo). Il tempo della poesia è un tempo lungo, che fa sedimentare le emozioni, le quali si ripresentano – nella loro forma – quando loro stesse vogliono; come scrive Giovanni Giudici:”Un poema si può mettere giù anche in cinque minuti. Ma chissà da quanto tempo sarà stato in viaggio. Chissà da quanto si prolungava il processo di incubazione dal quale sarebbe poi affiorato il composto, e in apparenza naturalissimo, ordine di suoni, ritmi, parole, concetti, immagini e sentimenti in cui il poema consiste”. E’ così che, sempre secondo Giudici, “quasi sempre ci accade di scrivere non tanto il poema che vorremmo quanto invece il poema che ci viene, che viene a noi dalle sue imprendibili lontananze”.

Proprio per questo il ruolo del poeta (il “minatore” che scava nell’animo umano, come scrive Giorgio Caproni) oggi è quello del resistente, spesso irriso e diffamato, o comunque incompreso da una società anestetizzata, che non ha tempo, non s’interroga sulle cose, non accetta dubbi, inquietudini, passioni, non è interessata a nessuna “imprendibile lontananza”: la sua stessa presenza è destabilizzante, fonte inaccettabile di turbamento. Ma al poeta resta da fare la poesia onesta, sempre, e questo lo porta alla completa, devastante immersione nella realtà, e nel contempo alla sua ineluttabile evasione verso un mondo necessariamente “altro”.

DIPINTO CON GLI OLIVI BLU (80*120, 2008) di P. FIDANZI: inserito nel soggiorno della famiglia Pistoia

COMMENTO IN VIA DI COSTRUZIONE

Ulivi Blu, dipinto (80*120) di P. Fidanzi; colline di Pomarance e Rocca Sillana (scorcio sala di Gabriella Pistoia)

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COMMENTO IN VIA DI COSTRUZIONE

Il quadro del dott. P. Fidanzi, inserito in questo scorcio di ambiente familiare,

è visibile più chiaramente nei posts “immagine 155-opt1” e “Paesaggi con ulivi blu e colline”.

(cercare: ‘Ulivi blu’).

 

Nuvole apparse improvvise di farfalle blu, richiamate dalle terre lontane del “nondove”, avvolgono gli ulivi vibranti del dipinto. Scambiano messaggi criptati attraverso i neri tronchi affilati e gli strani origami delle loro nere ombre fuliggine, con l’ocra chiara delle crete e sabbie di questo terreno pliocenico aperto. Poi lo sguardo, guidato da una stringente prospettiva, sprofonda nella valle e risale lentamente, a mosaico, verso una successione di colline lontane allineate che, più o meno scure, nella coinvolgente prospettiva, sbiadiscono, infine, sotto la stretta striscia di cielo terso e luminoso, quasi uno stretto portale per altre dimensioni, senza per altro confondersi con esso, allungando così ulteriormente, in prospettiva, il paesaggio sulla terra. E ci racconta di storie come nelle cantilene delle “conte” antiche o in certi sogni ambigui, mentre l’oggetto materico magicamente si fa lieve e si attivano ricordi lontani mediati e velati di leggera nostalgia. L’ansia più greve si allevia del tempo presente fremente ad iperboli. Fra ombre e luci, chiari e scuri siamo costretti a soffermarci a ‘respirare’ il quadro, forse per capire dove si nasconde il trucco di questo reale-irreale paesaggio..

Il dipinto è anche reale infatti; attraverso l’uliveta di Volterra guarda verso le colline di Pomarance che si evidenziano, a partire da sinistra, con il picco della Rocca di Sillano, il paese di Pomarance ed I Gabbri, muovendo verso destra. Ma l’atmosfera di sogno che, labile, fluisce dal blù della chioma degli alberi, che dialoga senza voce con gli origami delle ombre, carica di un’emozione pacata il dipinto per noi umani di queste terre, maturati alla cultura di queste colline attraverso un nuovo e strano neodarwinismo.
E’ il poeta-pittore che riesce a trasferire sulla tela il suo spirito che è anche il nostro, di osservatori meravigliati.

anonimo (ovvero NDC piero pistoia)

Si sta cercando una via conclusiva!

Ma la cosa che più colpisce è il suo effetto di insieme, di impatto che,  pur utilizzando oggetti e strumenti pittorici come l’albero dell’ulivo nella realtà contorto, il nero magico delle sagome di fossi ed ombre, una fuga trascinante nella prospettiva ed altro, sortisce poi di fatto un quadro arioso, luminoso, aperto alla speranza. che sembra in qualche modo rinnovare l’antica alleanza come sancì l’arcobaleno delle lontane scritture.

anonimo1 (ovvero Claudia Pistoia)

… come sancì l’arcobaleno delle lontane scritture

Chi vuol vedere la foto del prof. A. Cunsolo clicchi qui  sotto

Arcobaleno e Noé

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SCORCIO DEL PAESAGGIO REALE

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Non a caso più di una decina di anni fa Paolo Fidanzi scriveva:

PAESAGGIO

L’acuto dell’ulivo è stemperato

dall’azzurro fogliame lanceolato.

E l’uliveto intero si diffonde

sulle onde dei tuoi verdi pensieri.

 

L’albero dell’olivo è nella realtà contorto come nell’immaginario collettivo e nelle menti tormentate degli artisti. Da notare il diverso effetto psicologico emanato dal quadro di Paolo e da quello, riportato sotto, di Vincent (forse, addio alla speranza).

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