TESTI LETTERARI VINCITORI DI CONCORSI AL LICEO CLASSICO (VOLTERRA); a cura della dott.ssa Nara Pistolesi prof.ssa di ruolo in Lettere presso la stessa scuola

Links temporanei interni ai singoli racconti ‘colpiscono’ pochi righi più giù dei relativi titoli. Altri links verranno aggiunti quando necessario.

La Scoperta di Alice Vanni
In Una Sciarpa di Alice Vanni
A pranzo con Renoir di Gabriele Dipaolantonio
Complementare di Gabriele Dipaolantonio

I links aumenteranno nel tempo con l’aggiunta di altri racconti premiati

Per il primo racconto, cliccare su:

BRUNETTI_CANTINI_PAPERGUYS

Ovvero leggere di seguito:

Testo narrativo di Angela Brunetti e Caterina Cantini, studentesse della V Liceo Classico (a. s. 2015 / 2016) dell’I.I.S. “G. Carducci” di Volterra.
1°premio del concorso rivolto agli studenti dei Licei Classici della Regione Toscana, bandito dalla Commissione Editoria di Confindustria Toscana con il patrocinio della Regione Toscana.
Premiazione lunedì 30 Maggio, sala Pegaso di Palazzo Strozzi Guadagni Sacrati in piazza Duomo a Firenze, sede della Presidenza della Regione Toscana, alla presenza fra gli altri del sindaco di Volterra, Marco Buselli, Angela Brunetti, l’ Assessore regionale, Cristina Grieco, Caterina Cantini, il Dirigente Scolastico IIS Carducci, Gabriele Marini.

PAPERGUYS

CAPITOLO I #Demyan

“Non si vede bene che con il cuore.
L’essenziale è invisibile agli occhi.”
Il Piccolo Principe

Le dita mi tremano mentre cerco di abbottonarmi la camicia…sono troppo vecchio anche per questo adesso? Sbuffo e lascio perdere, tanto nessuno ci farà mai caso.
Sento i passi di mia moglie sulle scale.
– Tesoro? Possibile che tu non sia ancora pronto? Diego ce la farà pagare cara se non ti dai una mossa –
Blake si appoggia al muro per sistemarsi le calze scure.
– Credi che pioverà? – le chiedo mentre siamo davanti alla porta;lei indossa da sola il giacchetto senza il mio aiuto,caparbia come sempre.
– Aspetta un secondo – mi sussurra con un sorriso saputo mentre apre la porta rossa della nostra piccola casa; esce appena fuori sul pianerottolo e alza il viso verso il cielo – Non ti disturbare a prendere l’ombrello, non cadrà neanche una goccia –
Come ci riesce non lo so spiegare, semplicemente sente ogni cosa: il battito di un cuore, l’odore della neve ancora prima che arrivino le nuvole…è straordinaria.
– Lo so che mi stai fissando con la tua faccia da tonto –
– Non puoi sapere se ho una faccia da tonto –
Blake inarca un sopracciglio.
– Credimi, lo so eccome –
Ridiamo e ci incamminiamo sul marciapiede umido; Blake non inciampa in nessuna pozzanghera al contrario di me…forse sono io quello veramente cieco fra i due.
Mia moglie giocherella con i fiori che ho comprato per l’occasione. Varchiamo il vecchio cancello arrugginito e ormai invaso da piante rampicanti come tutto il resto del muro del cimitero.
Vedo sulla cima della collina, sotto la quercia, una figura vestita di scuro…lui e Blake hanno sempre avuto una passione smodata per i colori scuri.
Ci avviciniamo a Diego e vedo il suo leggero sorriso mentre stringe nella mano un libro che conosco fin troppo bene.
Blake si allunga per toccare la sua spalla, non parliamo mai troppo in queste occasioni…comunichiamo soprattutto con gli occhi, con i gesti, il chiaccherone era Lev e nessuno può prendere il suo posto.
Mi volto e accarezzo la lapide di pietra chiara, l’incisione Lev Carson è leggermente coperta dai fiori freschi che Diego ha sistemato davanti.
– Cominciamo? – chiedo, è dura per tutti noi, ogni anno, non cambia mai…il dolore e la nostalgia sono come il profumo persistente di un fiore che non appassisce mai.
Diego mi passa il libro…uno dei nostri preferiti. Lo apro mentre le mie dita rugose e ruvide fanno fatica a volgere le pagine fino al primo capitolo, mi sistemo gli occhiali spessi sul naso e prendo un bel respiro.
Che inizi la riunione delle storie mai interrotte.
– Il primo lunedì del mese d’aprile del 1625, il borgo Meung, dove nacque….-

CAPITOLO II #Blake

Mi chiamo Blake Annabeth Russel ho quasi diciannove anni, ma ne dimostro meno. Il mondo per me non ha alcun tipo di colore; i colori sono piatti, gli odori sono tangibili. Io vivo leggendo il mondo: non ho il pregiudizio degli occhi ma solo la verità. Credete che abbia una forma? Mi dispiace dirvi signori che non è proprio così. Non esistono i colori netti, ci sono solo sfumature.
Una volta mia nonna mi disse che io ero caduta nel buco di Alice appena nata e non ne ero mai uscita perché a differenza di lei non stavo sognando: per me è tutto realmente vero. Fino ad allora il mio viaggio nel paese delle meraviglie non era stato poi così folle e matto, anzi era stato un incubo. O almeno lo fu fino ad uno stupidissimo giorno in cui ogni cosa cambiò, e per sempre.
Come ho già detto, mi chiamo Blake Russel e ho quasi diciannove anni e sono cieca, ma proprio cieca come un pipistrello. La mia storia inizia da una rivolta. Aren, il posto in cui vivo, era una delle più tumultuose città della contea del Nord; c’erano proteste per avere una paga più decente e per diminuire la tassa sull’acqua: era una città turbolenta, furiosa come un toro rinchiuso in una campana di vetro. Mia madre, Ruth Annabeth Russel, era la rappresentante del movimento dei Corvi Rossi. Io adoravo mia madre, ma non capivo la sua ostinazione. Lei diceva di farlo per darmi un futuro migliore . Io non volevo che lei corresse dei pericoli ma in realtà non ero mai riuscita a fermarla.
“Santo cielo Blake, di solito queste cose dovrei essere io a dirle a te“ diceva lei con quella sua sicurezza fastidiosa.
Quel giorno però le cose andarono storte e gli animi si scaldarono tanto da arrivare a prendere a sassate il povero prefetto in uscita dal Palazzo di Giustizia. Il fatto provocò un putiferio incredibile al punto che persino mia madre fu arrestata e portata alla stazione di polizia.
“Blake, Blaaake, l’hanno presa!” sbraitava il vecchio Jackson, trascinandosi verso casa mia. Cercai di calmarlo e di farmi spiegare: lui mi disse che avevano arrestato mia madre. Quando arrivai alla stazione di polizia, mamma continuava a ripetere che non era colpa sua ma veniva ignorata. Capii subito che l’avrebbero portata via e cercai in ogni modo di salvarla. Così scelsi di scontare la pena al posto suo e, visto che ero giovane, mi spedirono nel riformatorio della città. Sicuramente non era un bel posto, ma era pur sempre meglio di una prigione. A mia madre non fu permesso uscire di casa ed il vecchio Jackson si propose di accompagnarmi sulla volante della polizia . “Fa’ attenzione, Blake. Tutta gente cattiva lì dentro! Sono solo sei mesi, resisti” borbottò il vecchio mentre mi accarezzava il viso con le mani ruvide. “ti auguro tutta la felicità possibile, mia piccola Alice!”
“- Ma io non voglio andare fra i matti, — osservò Alice. — Oh non ne puoi fare a meno, — disse il Gatto, — qui siamo tutti matti. Io sono matto, tu sei matta. — Come sai che io sia matta? — domandò Alice. — Tu sei matta, — disse il Gatto, — altrimenti non saresti venuta qui.” Alice nel paese delle meraviglie

CAPITOLO III #Lev

“Negli occhi della gente si vede quello che vedranno, non quello che hanno visto”.
Novecento

Demyan non faceva rumore, era diverso dagli altri bambini dell’orfanotrofio, non era chiassoso e sorrideva nascondendo la bocca dietro le mani…come se fosse un peccato divertirsi.
La prima volta che lo vidi era dicembre, me lo ricorderò finché avrò respiro. Avevo le ginocchia arrossate sotto i calzoncini corti per il freddo, ma non avrei mai rinunciato al torneo di nascondino, neanche per la pioggia gelida che mi aveva inzuppato i vestiti.
Entrai dalla porta sul retro e la mia risata echeggiava nel corridoio stretto.
Non mi aspettavo di trovarlo lì: sulle scale di pietra dell’ala ovest, la più fredda e buia…i bambini di solito la evitavano.
I capelli biondi, un viso tondo dagli occhi troppo grandi, grigi di tristezza e profonda sensibilità e il nasino a patata contro un libro troppo grande per le sue mani.
– Sicuro di finirlo? – chiesi indicando il tomo con un cenno sprezzante del mento.
– L’ho già finito, lo sto rileggendo –
Nessun bambino che conoscevo avrebbe ribattuto così, con quel tono basso e pacato e semplice, con una punta di arroganza che lo faceva apparire più grande.
– Vuoi venire a giocare a nascondino? –
Inclinò la testa studiandomi interessato.
– Non sei un po’ troppo grande per giocare a nascondino? –
– Non sei un po’ troppo piccolo per aver letto un libro così grande? –
Una smorfia divertita.
– Non si è mai troppo piccoli per amare le storie – rispose con un sorriso che m’incuriosì.
Mi misi a sedere accanto a lui e gli sorrisi.
– Pensi che sia veramente così bello leggere? – gli chiesi sbirciando le pagine del libro.
– Una delle cose più belle del mondo –
– Io non ho mai letto molto – ammisi sbuffando – potresti insegnarmi come si fa? –
Lui rise per la prima volta senza tapparsi la bocca.
– Vuoi che ti insegni come si fa a essere come me? – gli occhi grigi sgranati di vivo stupore.
– Non come te, diciamo come si fa ad amare leggere –
– Nessuno può insegnarlo –
– Puoi sempre provarci! – lo esortai.
Lui chiuse il libro e mi fissò accigliato.
– Non mi lascerai in pace finché non dico di sì, vero? –
– Sveglio il bambino – e gli feci l’occhiolino.
– Come vuoi…ci proverò – sbuffò alzando gli occhi al soffitto.
– Mi chiamo Lev ma tanti mi chiamano Peter…per via di Peter Pan, lunga storia, comunque da adesso in poi non ti libererai più di me – lo informai mentre allungavo la mano.
– Demyan…senza soprannomi o altro – sussurrò per poi stringerla goffamente.
E dopo quella stretta, non potevo ancora saperlo, ma cominciò a scriversi una storia straordinaria…la nostra storia.

CAPITOLO IV #Blake

Il riformatorio era molto più grande di quanto pensassi e lo capivo dalla quantità di suoni che vi rimbombavano. Una donna piuttosto giovane mi spiegò ogni singola regola che vigeva lì ma dal modo in cui le diceva, sembrava che nemmeno lei ci credesse. Dopo avermi accompagnata nei dormitori, fece uno sbuffo di disapprovazione e poi uscì dalla stanza.
Rimasi in camera almeno un’ora poi decisi di esplorare un po’ il posto nuovo; così uscii dal dormitorio e, tenendo una mano sulla parete, iniziai ad avventurarmi nell’edificio. Il corridoio era pervaso da un odore di legno vecchio e disinfettante, mi ricordava l’ospedale.
– Non potete separarci. Non abbiamo fatto niente!- urlò un ragazzo in fondo al corridoio. Avvertii la presenza di altre tre persone.
– Ehi, ragazzino, poche storie. In fondo si tratta solo di dormire in stanze diverse –
– Voglio stare con Diego!-urlò una piccola voce impaurita, – non abbiamo fatto niente. Non siamo come gli altri!-
– Basta adesso, le regole sono queste. Forza divideteli!-
– Non provare a toccare mio fratello!-
Mi avvicinai per capire meglio cosa stava accadendo. Il ragazzo più grande continuava a rifiutarsi di lasciare il fratellino.
– Noo, Ray! Lasciatemi stare, ho detto lasciatemi!-
L’urlo fu accompagnato da un rumore di ossa: aveva dato un pugno dritto in faccia ad una delle guardie, come seppi dopo. L’uomo iniziò a lamentarsi ed un altro per vendetta dette uno schiaffo al ragazzo come potei capire dallo schiocco della mano sul volto.
– Credi che non ne abbia mai presi? tu non sai da dove vengo!-
– Portatelo via. Chiudetelo nella stanza delle sedie. Niente cena fino a domani sera – ordinò un uomo di mezza età a cui la segretaria lì vicino si rivolgeva chiamandolo Mister Fox.
Le guardie obbedirono e trascinarono via il ragazzo che continuava a chiamare il fratellino.
– Ray, Ray, non avere paura, non avere paura. Ricordatelo, tu sei un moschettiere. Tu sei un moschettiere!
– Diego!- urlava il bambino con la voce rotta dal pianto mentre portavano via il fratello.
Mi beccai una bel rimprovero da parte di Mister Fox che mi chiese ansioso come mai mi aggirassi per i corridoi “nelle mie condizioni”. Io mentii spudoratamente e gli dissi che mi ero accidentalmente persa. Mister Fox fece finta di crederci e per quella sera fui salva. Non sarei finita anche io nella stanza delle sedie o almeno non quel giorno.

CAPITOLO V #Diego

“Per quanto tempo è per sempre?”
“ A volte, solo un secondo.” Alice nel paese delle meraviglie.

Sapevo che mio nonno era un farabutto, ma non credevo fosse arrivato ad incolpare me e Ray dei suoi furti da quattro soldi. Giurai che me ne sarei andato da quel posto e da quello schifo di città in cui non avevo scelto di nascere. Quando mi rinchiusero nella stanza delle sedie, non immaginavo che fosse una vecchia biblioteca che sapeva di muffa e umidità. La guardia mi sbatté dentro la stanza.
– A domani! Occhi di menta!- mi disse ironizzando sul colore dei miei occhi. In quel pomeriggio successe qualcosa di più di un ironico commento da parte di un uomo di mezza età. Infatti, appena rimasi solo nella stanza delle sedie, dopo un po’ che mi giravo i pollici e ruotavo gli occhi, mi accorsi che lì, fra tutti quei vecchi libri, c’era anche quello di Dumas.
Io e Ray eravamo cresciuti con quel libro e ritrovarmelo lì era piacevole come un abbraccio. Così lo presi ed iniziai a sfogliarlo: era un’edizione antica, ruvida, la copertina era appesantita dall’umidità. Mentre giravo le pagine, mi vennero a mente tutte le volte che io e mio fratello avevamo letto insieme quella dannata storia. Ray si è sempre incaponito sul fatto che IO dovessi essere D’Artagnan e lui Porthos e così ogni volta era un litigio su ‘chi doveva fare chi’. Pensavo a tutto questo finché non gettai il libro da una parte per stendermi su una di quelle sedie e abbandonarmi ad una meritata dormita. Faceva un freddo incredibile e lo schiaffo mi bruciava ancora sulla guancia, lo stomaco mi faceva un male tremendo. Solo dopo due ore di patimento mi addormentai come una foca sospesa in un mare di polvere e ruggine. Mi sembrò il sonno più breve della mia vita quando una voce sconosciuta venne a svegliarmi.
– Ehi, sveglia cowboy! E’ ora di pranzo. Su, alzati!-
Aprii gli occhi e mi ritrovai davanti un tipo alto con i capelli rossi. Il ragazzo cercò di farmi alzare dal pavimento e mi trascinò su come fossi una piuma.
– Ehi, toglimi le mani di dosso – gli feci io – so camminare da solo –
– Veramente mi sembri abbastanza sconvolto. Andiamo ti accompagno in camera! – rispose lui con un sorrisetto al limite del sopportabile. Io mi divincolai e cercai di uscire da quella stanza buia. La luce del corridoio mi abbagliò al punto che riuscivo a mala pena a tenere gli occhi aperti.
– I dormitori sono di qua –
– Non me ne frega niente, non ti pare che abbia dormito abbastanza? –
– Beh forse tuo fratello è lì –
– Cos’hai detto?!Dov’è Ray? – dissi io afferrandogli il colletto della maglia.
– LEV!-
Il tipo si girò e si ritrovò davanti Mr. Fox.
– Che stai facendo, Lev? –
– Niente signore, stavo mostrando al ragazzo nuovo i dormitori.-
– Non credo che Diego sia pronto per stare nei dormitori. Dico bene, Diego? –
Mr. Fox mi guardò con uno sguardo severo ed io lo ripagai altrettanto. Dovevo trovare mio fratello e niente e nessuno me lo avrebbe impedito.
– Allora, Diego qual è il problema? –
– DOV’E’ MIO FRATELLO?!-
– Calmati adesso. Vedrai starà bene.-
– Dimmi dov’è!-
– E’ insieme ad altri bambini che come lui hanno bisogno di una vita migliore. Sono tutti giù di sotto, fra poco verranno a prenderli quelli della casa famiglia-
– Ray ha solo bisogno di me! TOGLITI DI MEZZO!- gli affibbiai un pugno in faccia con tutta la forza che mi era rimasta e cercai di raggiungere l’ingresso del riformatorio. Il cuore mi batteva così forte da farmi male. Togliermi mio fratello significava non dare più alcun senso alla mia vita e alla morte di mio padre. No, non potevo accettarlo!
Ma arrivai troppo tardi e feci appena in tempo a vederlo partire sul piccolo pulmino che portava lui ed altri bambini alla casa famiglia. Lo guardai andare via con gli occhi pieni di lacrime. Ne avevo sopportate tante ma, cavolo, quello faceva davvero male. In fondo erano solo sei mesi e poi avrei potuto rincontrare mio fratello. Eppure non riuscivo a farmene una ragione.

“La vita è piena d’umiliazioni e di dolori, tutti i fili che la legano alla felicità si rompono in mano all’uomo uno dopo l’altro, soprattutto i fili d’oro. Mio caro d’Artagnan, credetemi, nascondete bene le vostre ferite quando ne avrete. Il silenzio è l’ultima gioia degli infelici”. I tre moschettieri

CAPITOLO VI #Demyan

“Nei miei sogni di adolescente, lei e io saremmo sempre stati due amanti che fuggivano in sella a un libro, pronti a dileguarsi in un mondo immaginario fatto di illusioni di seconda mano”. L’ombra del Vento

Stavo fissando il soffitto da più o meno dieci minuti. Quel silenzio era un incubo e non avevo nessun libro per soffocare la mente.
Certi ricordi mi portavano un dolore fisico, insopportabile, come ferite aperte contro un vento troppo forte.
– Non dovresti pensare così forte – un mugugno che conoscevo bene.
– Lev, ma russavi fino a tre secondi fa – risi tappandomi la bocca.
– Mi hai svegliato, quando fai brutti pensieri, lo sento – rispose tranquillamente.
Sentii dei movimenti e poi la sua testa fece capolino di fronte a me, le lentiggini ancora più in risalto nella luce della mattina.
– Che cos’hai? – mormorò reprimendo uno sbadiglio.
– Niente…-
Lui era il Peter Pan delle anime perse, tutte rinchiuse in quella casa ad aspettare qualcosa di non ben definito. Io avevo smesso di aspettare nel momento in cui l’avevo conosciuto; lui era la mia famiglia e lo sarebbe sempre stato.
– Credo che andrò a leggere…ho voglia di leggere –
– Tu hai sempre voglia di leggere –
– Sì, ma oggi ne ho veramente bisogno – confessai accarezzando il cuscino.
Lev si passò una mano tra i capelli rossi e si morse le labbra.
– Dem, ti giuro che ti porterò fuori di qui…faremo qualcosa di grande, aiuteremo i bambini come noi –
– Sono dei bei sogni, Lev…davvero – borbottai.
Lo ammiravo così tanto, ammiravo tutta quella forza e quella fiducia nel domani.
– Dem, ti porterò via da qui…devi credermi – sussurrò cercando di venirmi dietro.
– Lo so, Lev…io devo solo andare a leggere adesso – e corsi via.
Entrai nella biblioteca e camminai verso il mio cantuccio di calma e silenzio. Era un piccolo spazio, nella parte più antica e abbandonata della grande biblioteca: due scaffali di libri ingialliti e polverosi accanto a due vetrate. Un tempo quello doveva essere il cuore di una libreria comunale ma la guerra civile stava distruggendo la storia di una città in pochissimo tempo.
Sentii un’imprecazione sussurrata e il rumore di una sedia che cadeva.
– Accidenti…-
– C’è qualcuno? –
– No, straniero, solo un fantasma che cerca un po’ di pace – la voce di una ragazza, colma di amaro sarcasmo.
Mi piegai sulle ginocchia per poter vedere la figura che si stava dimenando sotto il tavolo.
– Che stai facendo? –
Lei non mi ripose perché colpì con la testa sotto il tavolo.
– Ahio..! Cavolo, devo smetterla di fare queste cose –
– Ma non lo vedi dove metti i piedi o la testa? –
Lei sbuffò ridendo apertamente e uscì da lì sotto, si mise in piedi inclinando la testa e strusciandosi le mani su un paio di jeans che avevano visto giorni migliori.
I capelli biondo scuro incorniciavano un viso piccolo e delicato, la pelle diafana e un paio di occhi allungati così scuri e profondi, ma allo stesso tempo così immobili, privi di vita.
– Oh non avevo capito che tu fossi…-
– Come? Bellissima, straordinaria, divina…-
– No, cieca –
Lei annuì piano.
– Già, ogni tanto me ne dimentico –
– Ti dimentichi di essere cieca? – chiesi stupito mentre lei si metteva in spalla una piccola sacca e fissava il vuoto alle mie spalle.
Era così bella e delicata, ma allo stesso tempo era confusionaria e arrogante.
– Senti, posso assicurarti che posso vedere il mondo meglio di tanti altri anche senza occhi –
– Volevi stare da sola? – lei annuì … quanto la capivo!
– Io lo stesso. Volevo leggere il mio libro preferito per iniziare bene la giornata –
– Che secchione –
– Non hai mai letto? –
– Ricordo che da piccola leggevano per me, ma poi…sai com’è,senza vedere non è proprio facile –
– Sì giusto, scusa – mormorai.
Lei sospirò pesantemente.
– Io…io ero venuto per leggere, ti va se lo faccio ad alta voce? – proposi, anche se avevo il timore che mi tirasse un pugno.
Lei tastò il tavolo con le dita fino a trovare dove era posizionata la sedia e si accomodò.
– Non voglio la pietà, non ne ho bisogno…sono sopravvissuta fino a ora senza e sarò felice di continuarlo a fare – sentenziò arricciando il nasino a punta.
La guardai, la sua figura esile avvolta da una felpa troppo grande e i capelli in un disastro di nodi e le unghie mangiate… tutto di lei era confusione pura ed era adorabile.
– Mi chiamo Demyan – cercai di instaurare un dialogo.
– Buon per te – rispose in un mugugno.
Sbuffai divertito e mi avvicinai agli scaffali cercando il mio libro preferito, lo avevo lasciato là così da averlo sempre a mia disposizione.
Era un regalo di Lev, era il mio più grande tesoro.
Mi sistemai di fronte a lei e prima di aprire il libro la osservai: un cipiglio concentrato ad avvertire il mondo intorno a lei e la lingua fra i denti, gli occhi spenti che cercavano forme nel buio.
– Io leggerò ad alta voce, tu sei libera di ignorarmi o andartene – le dissi, ma lei alzò le spalle in segno di indifferenza.
– Ricordo ancora il mattino in cui mio padre mi fece conoscere il Cimitero dei Libri Dimenticati… – mi bastò cominciare i primi due righi e già tutti i suoi sensi erano focalizzati sulle mie mani che voltavo le pagine e la mia voce.
Poi inaspettatamente tra un mio respiro dopo un punto e l’inizio dell’ennesimo capoverso la sua voce tornò di nuovo.
– Blake –
– Come, scusa? –
– Mi chiamo Blake per la cronaca…pensavo dovessi saperlo visto che ormai abbiamo condiviso un capitolo di libro insieme –

CAPITOLO VII #Lev

“Sono le scelte che facciamo che dimostrano quel che siamo veramente, molto più delle nostre capacità!” Harry Potter

Dem non era ancora tornato in camera.
I suoi occhi così chiari certi giorni assumevano la stessa consistenza di un temporale invernale, una tempesta di dolore che non sapeva dove poter sfogare la sua rabbia.
Dovevo portarlo via.
Demyan li chiamava sogni, io non davo un nome a quei miei desideri, erano gli obiettivi che volevo raggiungere con tutto me stesso.
Non li avevo presi così sul serio finché la mia strada non aveva incrociato la sua. Lui mi aveva aperto un mondo fatto di pagine stampate e odore di carta, mi aveva letto storie di piccoli uomini che raggiungevano vette impossibili, che rischiavano tutto per salvare le persone che amavano e che riuscivano a sorridere anche di fronte alla morte. In tutte queste storie avevo trovato una parte di me e mi avevano donato una parte di loro.
Mr Fox mi osservava dalla porta con una mano sulla spalla di Diego. Come punizione per essermi ficcato negli affari di quel ragazzo scontroso, adesso dovevo tenerlo d’occhio; non pensavo che sarebbe stato facile e mi stupii quando acconsentì ad aiutarmi a trovare Dem.
Il locale era silenzioso come sempre, entrammo e rimasi stupito di vedere Demyan che sorrideva…a una ragazza?
Mi ero perso qualcosa, sicuramente.
Demyan non si era accorto di noi e continuava a leggere a voce alta, ma la ragazza si voltò verso di noi immediatamente.
– Ehm…disturbiamo? – tossicchiai.
Diego accanto a me si appoggiò a uno scaffale come a godersi una commedia.
– Lev? – la voce di Dem era frastornata ma si ricompose leggermente.
– Blake, quello pazzo è Lev e ..-
– e quello dietro di me è Diego -feci io
Blake fece un gesto ampio con la mano e poi si morse un labbro.
– Quindi tu sei cieca? – chiesi giusto per mettere le cose in chiaro.
– Lev! –
– Già e tu con questo tipo di domande quanta gente hai fatto arrabbiare?-
Una risata bassa, era Diego e mi ritrovai a guardarlo senza parole.
– Fantastico, ci mancava un elemento sarcastico nel gruppo… – commentai per poi avvicinarmi a Blake per prenderle la mano, ma lei anticipò le mie mosse e mi tese la mano con arroganza.
– Sicura di essere cieca? –
– Ho solo i sensi molto sviluppati – disse.
– Perfetto. Visto che siete entrambi nuovi, vi aiuterò ad ambientarvi … intanto mi aiuterete con qualche lavoretto. Diego, spero che tu abbia pazienza con le erbacce e Blake, troveremo qualcosa per occupare il tempo. Su, seguitemi! – Saltellai verso la porta e poi mi voltai perché nessuno mi stesse seguendo.
– Che problemi ha? Perché è così felice? – Blake proprio non capiva, ma in effetti i miei cambi di umore erano abbastanza indecifrabili.
– Non c’è un motivo, è così e basta –

CAPITOLO VIII #Diego

“- Se poteste vedere nel mio cuore allo scoperto – disse d’Artagnan – vi leggereste tanta curiosità che avreste pietà di me, e tanto amore che dareste subito soddisfazione alla mia curiosità. Da coloro da cui si è amati non c’è nulla da temere –“ I tre moschettieri

C’era una parte di me che voleva essere totalmente libera. Se avessi avuto la possibilità, sarei fuggito all’altro capo del mondo e qui avrei cambiato la mia identità e , dopo aver cancellato tutto il mio passato, sarei diventato una nuova persona. Mi odiavo, questo sì, ma non mi vergognavo di ammetterlo perché non tutti hanno il privilegio di avere una vita felice e per quanto mi riguarda il mio compito era ritrovare mio fratello.
E così mi ritrovai a pulire il giardino del riformatorio insieme a quei tre squinternati che a forza mi avevano trascinato nel loro gruppo. Lev era insopportabile, così tremendamente ottimista, Demyan invece mi faceva venire l’angoscia con quei suoi modi da principe azzurro, e poi c’era Blake che tutto era fuor che cieca. A loro modo (ed erano strani!) cercavano disperatamente un modo per fuggire dal loro dolore. Perché tutta la vita è una continua corsa via da ciò che ci fa paura. Per me era stata una bella maratona fino a quel momento, ma non avevo scelta. Forse ero davvero D’Artagnan!
-Forse sei davvero D’Artagnan!- esclamò Blake leggendomi quasi nel pensiero.
– Perché non mi aiuti invece di parlare? – le feci.
– Sai, Diego, è da un po’ che ti studio – disse Blake, mentre sfilacciava un rametto secco.
– Succede se si passano le giornate a non fare nulla. Sei una piccola sfaticata, tu!-
Blake rise e mi si avvicinò con il suo fare da passerotto.
– Non parli mai di ciò che ti piace o non ti piace, di come vorresti essere. Lev lo fa continuamente –
– Sì anche troppo per i miei gusti – risposi io.
– Io invece sono curiosa. Voglio sapere se ti piacciono i libri. Bruceresti un libro per scaldarti? –
– Sì se facesse così freddo da poterne morire –
– Anche il tuo libro preferito?-
– Sì –
– Io so che tu moriresti per non bruciare quel libro – replicò Blake spiazzandomi.
– E perché non dovrei farlo? –
– Il perché lo sai tu. Ognuno prima o poi conosce i propri perché –
Io rimasi un po’ perplesso, ma era Blake, tutto con lei era enigmatico.
Poi il ruggito del cielo interruppe i nostri discorsi. Il vento iniziò a soffiare forte e l’aria si riempì di umidità.
– Dobbiamo rientrare Diego! Sbrigati!-
– Non posso lasciare gli attrezzi qua! Va’ dentro tu! Ci penso io qui –
La pioggia iniziò a scendere senza preavviso e con una violenza inaudita.
Quando rientrai, Mr.Fox mi assalì urlando che ero un matto e che non potevo starmene fuori a prendere i fulmini come un palo della luce. E proprio mentre l’uomo si accaniva contro di me, una scarica elettrica scese dal cielo e colpì il riformatorio in pieno facendo andare via la luce e rintronando l’intero edificio con un rumore frastornante. I ragazzi urlarono ed il cuore mi saltò in gola.
– State calmi, è solo un fulmine –
– No è una TEMPESTA DI FULMINI!- urlai io guardando fuori dalla finestra. Scariche di luce si scagliavano sulla città.
– Oddio!Lev e Demyan sono ancora al ponte con gli altri due operai. Dobbiamo andare a prenderli!- esclamai io.
– Non ci pensare nemmeno, Diego!-
– E’ vero, non possiamo lasciali lì!- ripeté Blake facendosi avanti. Ma Mr. Fox scosse la testa e mi afferrò per un braccio trascinandomi verso il suo ufficio.
– Prova a fare qualcosa di stupido e ti rinchiudo per sempre, Diego!-
– E’ un codardo Mr. Fox –
– Senti tu, ragazzino insolente, io cerco solo di tenervi tutti al sicuro perché..-
– … perché è il suo dovere così come il nostro è andare a salvare i nostri amici!- esordì Blake da dietro.
– Per favore Blake, non immischiarti!-
– E invece io mi immischio – e pum! Gli affibbiò un cazzotto facendolo cadere a terra.
– Ho imparato dal migliore – mi disse lei ridendo. Poi senza indugiare oltre, presi le chiavi della macchina di Mr.Fox e ci precipitammo a salvare i nostri amici.

CAPITOLO IX # Diego

“Ho visto molte cose. Ho partecipato a tutte le catastrofi peggiori del mondo, e ho lavorato per il più grande dei cattivi. E ho visto le più grandi meraviglie. Ma è ancora come ho già detto: nessuno vive per sempre.” La Morte- Markus Zusak- Storia di una ladra di libri.

Quando finalmente raggiungemmo Lev e Demyan, il fiume era in piena e scorreva furioso sotto l’enorme ponte d’acciaio che collegava i due lembi di terra.
– Tira Dem, tiraaaaaaaa!- era la voce di Lev che cercava insieme agli altri di salvare quel povero diavolo di Johnny Cop. La pioggia continuava a cadere e ad essa si era mischiata anche la grandine. Pareva che il cielo stesse per cadere giù da un momento all’altro ed i fulmini spaccavano l’aria.
– Leeeeev- gridai io, correndo verso il ponte per aiutarli. Ma erano troppo distanti per sentirmi.
Con ultimo grande sforzo riuscirono a tirare su il poveruomo che era completamente in preda al panico.
– Dobbiamo trovare riparo! Forza !- gridò Lev
– Leeev!- gli urlai di nuovo mentre cercavo di raggiungerli correndo come un pazzo sopra quel dannato ponte.
– DIEGO?!!- Lev si accorse di me ed iniziò a corrermi incontro, ma un fulmine colpì in pieno il ponte. La struttura si incendiò e delle alte fiamme divamparono verso il cielo.
– O mio Dio! Lev!-
– Correte verso il lato opposto, forza!-
Le fiamme li inseguivano senza pietà. D’istinto mi precipitai verso di loro con un coraggio che non poteva essere tutto solo mio.
– Ce l’abbiamo quasi fatta! Un ultimo sforzo – urlava Lev. Ero quasi riuscito a raggiungerli quando lo vidi fermarsi.
– Ehi dov’è Dem? – disse lui.
– CHE CAVOLO SUCCEDE!? – esclamai dopo essere riuscito finalmente a raggiungerli. Lev si voltò verso di me con gli occhi pieni di paura.
– Johnny, va’ avanti, corri a chiamare aiuto, HAI CAPITO? VA’ A CHIAMARE AIUTO!- l’uomo annuì tremolando e, appena Lev l’ebbe lasciato, si precipitò verso l’uscita dal ponte. Non sarebbe venuto nessuno ad aiutarci, Lev lo sapeva. Guardò dall’altro lato: il fuoco era dovunque, e lì c’era anche Dem.
– Che facciamo adesso!? –
– Andiamo a prenderlo!- urlò e si precipitò a salvare l’amico, scomparendo nel fumo nero.
– Oh! Se proprio devo morire! VA’ AL DIAVOLO LEV!- e detto questo seguii quel pazzo ragazzo dai capelli rossi.
Trovammo Dem sdraiato in terra semisvenuto con le gambe bloccate da un enorme pezzo d’acciaio.
– Al mio tre lo solleviamo – disse Lev
– Uno,due,treeeeeee!-
Con uno sforzo immane,liberammo Dem.
Lev sorrise ed insieme riuscirono a liberarlo.
– Diego,aiutami a portarlo, non può camminare –
Ci caricammo Demyan sulle spalle e per un dannatissimo miracolo ne uscimmo salvi. Quando tornammo alla macchina, Blake ci corse incontro per abbracciarci tutti e tre. Eravamo scampati a Mr. Fox, ci eravamo appena salvati le penne ed eravamo insieme. Non ci voleva molto a capire che forse era meglio non separarsi più. E così accadde: il caso ci riunì e un fulmine ci legò per sempre.

“Mi meraviglia sempre la forza degli esseri umani, che riescono a rialzarsi seppure barcollando, persino quando fiumi di lacrime inondano i loro volti”
Storia di una ladra di libri

CAPITOLO X #Lev

“C’è una bellezza nascosta in ogni cosa- disse il dottore – Anche nella più tremenda” La donna dei fiori di carta

C’era una strana aria di quiete quella mattina.
Entrai nella vecchia caserma dei pompieri che avevamo trasformato in casa nostra e mi accolse un silenzio irreale; solitamente gli schiamazzi dei bambini del quartiere riempivano tutti i locali dell’edificio e Diego correva dietro di loro affannato e Dem era soffocato dalle copie fresche del piccolo giornale e Blake cercava di mantenere un accenno di ordine gridando ordini a destra e a manca.
Ma quella mattina era tutto diverso, come se il caos in cui vivevamo da due anni a quella parte ci avesse dato un attimo di pace.
Trovai Dem a sbavare addormentato sui suoi appunti mentre Blake era spaparanzata sul divanetto abbracciata alle copie del giornale di quella mattina…erano assurdi.
– Non svegliarli. Stanotte hanno lavorato come matti – Diego era al piano di sotto, le mani occupate da copie di libri e copertine colorate.
– A volte mi maledico di avergli dato quest’idea…scrivere un giornale per informare la città è dura – ammisi scendendo le scale di metallo.
Lui alzò le spalle.
– Sono giovani e in forze –
– Sono due folli – ribattei mentre raggiungevo la cucina.
La nostra casa era un disastro: un collage di giocattoli per bambini, libri, vestiti sparsi, sacchetti di patatine e pennarelli colorati, il tutto stipato dentro una caserma dei pompieri ormai in disuso a tre piani…
Il giornale non ci faceva guadagnare molto e il mio lavoro come sorvegliante del quartiere non faceva tanto di più, ma eravamo insieme e ci stavamo impegnando per realizzare qualcosa che fosse duraturo.
– Sarebbe bello poter aprire una vera scuola…- dissi senza pensarci – proprio qua –
– Sappiamo tutti che sarebbe il tuo sogno –
Diego rise divertito e continuò a mettere in ordine la libreria, era importante avere un posto dove raccogliere tutti i libri che avevano fatto parte della nostra vita, delle nostre avventure, che ci avevano fatto crescere e condividere emozioni eterne.
Non mi sentivo stanco anche se avevo dormito poche ore; così lasciai un bacio in fronte a Dem e Blake e mi caricai delle copie fresche di stampa.
– Preparagli una bella colazione, a queste ci penso io – dissi a Diego mentre montavo in sella della bicicletta.
Pedalavo veloce senza fare troppo caso a quello che mi circondava, mi sentivo calmo come il cielo di quella mattina, come l’odore del vento fra i miei ricci rossi e stavo così bene e poi… un secondo, un respiro.
Non mi ero mai reso conto che la terra potesse essere così dura o il sangue così rosso o il buio così profondo.
Mi fischiavano le orecchie, doveva avermi investito qualcosa.
Avevo freddo e cominciavo a non sentire più il mio corpo…un attimo prima ero e dopo non ero più, cos’ero allora? In bilico dentro un respiro che doveva spezzarsi.
Ero Lev e non stavo morendo…stavo solo volando nell’ “Isola che non c’è”.
Un’altra avventura per me.

CAPITOLO XI #Demyan

“I libri sono specchi: riflettono ciò che abbiamo dentro” L’Ombra del Vento

Chiudo il libro, un altro capitolo è finito, un altro anno passato senza Lev. Adesso dove prima c’era la nostra caserma si erge una delle più belle scuole della città, quello che era stato un piccolo giornale casalingo adesso è diretto da nostro nipote ed è uno dei più importanti della nazione.
Lev si era trovato tra le mani tre piccoli semi, feriti dal tempo freddo e dalla terra arida e ci aveva fatto crescere.
Penso che nessuno possa credere in qualcosa come Lev aveva creduto nei suoi sogni.
– Stavo pensando a tutti i nostri libri…- espirò Diego, come se si tenesse dentro quella frase da tanto – a tutti i personaggi che ci hanno ispirato e che ci somigliano. Avete notato che Lev può ritrovarsi in tutti loro? –
Sorrido con nostalgia.
– Era un bambino che non voleva crescere –
– E anche un folle quasi quanto il cappellaio – ridacchia mia moglie.
– Era giusto e combattivo come un moschettiere – continua Diego
– E coraggioso come un mago…- mormoro.
– E’ come se portassimo dentro ogni pagina dei libri un po’ di ciò che era –
– Ogni volta che apriremo un qualunque libro, lui sarà lì, sarà da qualche parte in quelle storie…sarà quella parte che ameremo più di tutte anche se nascosta, anche senza accorgercene –
– Sarà lo specchio di ciò che cerchiamo in un’avventura fatta di righe – conclude per me Diego.
Rimaniamo in silenzio, giusto qualche minuto poi passo il libro a Diego che lo stringe tra le dita mentre si morde le labbra secche. Ci facciamo un cenno della testa e torniamo alle nostre vite, con il petto più leggero…in sottofondo il rumore bianco e nero di storie che cominciano adesso a essere scritte.
“Voglio assolutamente continuare a sentire che un giorno morirò. Altrimenti non mi accorgo che vivo” Kitchen

FINE

……….

La Scoperta di Alice Vanni

Racconto di Alice Vanni, V Liceo Classico 2015 / 2016, I.I.S. “G. Carducci” Volterra.
Segnalazione nel Premio Letterario Castelfiorentino 2016 dal titolo “Mistero a…”

LA SCOPERTA di Alice Vanni

Nella vita degli umani – e forse anche in altri tipi di vite, chissà – c’è un istante più o meno definito in cui si passa da uno stadio all’altro della propria esistenza. Gli inglesi li chiamano coming of age, in italiano non sono sicura che ci sia un termine per definire questi eventi. Possono essere passaggi di età, possono essere passaggi di coscienza dello stato delle cose, non sempre associati ad una determinata età anagrafica. Possono essere persone che si conoscono. I miei coming of age sono stati due, per adesso. Forse tre, ma l’adolescenza non sono sicura di averla del tutto superata, neanche a vent’anni.
Il primo è il classico, quello che ogni persona ha, o quantomeno dovrebbe avere per vivere una vita conforme allo standard della società odierna; sto parlando del passo che dall’infanzia ti butta in quella condizione ‘né carne né pesce’, come dice Peter Pan. Il mio passo, o meglio, il mio salto nel limbo della pubertà, è stato causato da una visita in una vecchia città, etrusca disse mamma. Mentre la macchina saliva lenta l’ultima curva per raggiungere le mura costeggiammo una strada più o meno abbandonata. Abbandonati certamente lo erano i ragazzi e la ragazza, magrissimi tutti e tre, che dormivano abbracciati. Stritolati, pensai. Mamma mi disse che dormivano, ma quando uno alzò la testa e mi guardò negli occhi, capii che ci sono cose nel mondo che superano la normalità, la salute della mente e del corpo. Superavano di gran lunga la mia comprensione. Lì ho capito che io non ero niente, ma che ero tutto. Lì ho capito che non siamo propriamente tutti uguali, tantomeno ‘tutti fratelli’ come cantavano nella musicassetta di Natale dei bambini disegnati a matita.
Con il secondo passo ho visto che guardando bene si vedono le differenze che avevo intuito e che non sono tutte annichilenti come quei tre ragazzi. Più che un istante è stato una persona che mi ha fatto cambiare fase e atteggiamento, visione del mondo e dei suoi abitanti e tutto il resto. Una persona fisica, un ragazzo un po’ basso per il suo ego da gladiatore, con delle coste sproporzionatamente grandi rispetto alla vita ed ai fianchi. Forse un torace più stretto non gli avrebbe contenuto il cuore. Spalle larghe per abbracciare, mani piccole e veloci per disegnare ed occhi piccoli, punte di scalpelli con cui sa scolpire la tua immagine in mente. Quando l’ho conosciuto e visto disegnare ho pensato che lo facesse per svuotarsi la testa da tutte le immagini che gli rimanevano incise per colpa di quegli occhi da tigre rara. In realtà prima che mi rendessi conto che mi aveva catapultato in una nuova dimensione della mia vita, mi ci è voluto quasi un anno.
L’ho conosciuto a diciassette anni, mentre da ubriaco in un locale appena fuori Firenze tentava di spiegarmi i vantaggi di saper disegnare rispetto alla mia fotografia. In realtà non ha mai voluto dirmi come potesse sapere che io fotografavo. Una delle tante domande che mi ha lasciato in sospeso, assieme al come faccia a riconoscermi dalla cadenza con cui respiro quando non può vedermi. Mi ha fatto passare dall’incoscienza classicista di chi crede che sia ancora possibile la democrazia aperta della Grecia antica, alla consapevolezza che il mondo gira così per adesso, se lo vogliamo in un altro modo c’è solo da entrare nel sistema e cambiare il verso. Con i suoi occhi da gazza ladra mi ha insegnato a scavare nelle persone sempre un po’ di più, fino a mostrarmi che dietro ogni singola persona, ogni singola cosa, c’è un cosmo in evoluzione e rivoluzione. Mi ha mostrato quanto numerosi siano i lati che un dato oggetto possiede, tutte le sfaccettature dei diamanti, che alla fine sono carbone. Delle siringhe che alla fine sono anche aghi. Certe cose sono cura e malattia.
Farmi crescere da lui non è stato sempre facile. Tra tutti i momenti in cui mi ha rivoluzionato, ne ricordo uno, forse la notte in cui guardandomi addosso mi sono resa conto di quanto mi avesse mutato. Quella sera, quella notte, quei giorni che la seguirono, ancora adesso non me li spiego. Ennesima domanda che lascio galleggiare tra me ed i suoi occhi. Continuava a parlarmi di suo fratello. Attraversava la stanza, il pavimento stava sprofondando sotto le parole che gli uscivano in folla dalla bocca. Mi stava spaventando. Suo fratello non sapeva più quanti anni aveva, non distingueva più la realtà e la favola che sua madre gli aveva costruito attorno.
La luce azzurrina del distributore automatico era l’unica in quella scuola chiusa. Ho realizzato dove mi aveva fatto entrare soltanto guardando quegli anelli che si torcevano attorno agli snack. Aveva armeggiato un poco con la porta a vetri nel buio ed io semplicemente mi fidavo. Stava parlando di sua madre ed il tono basso e ferito della voce mi aveva rapito, non mi resi conto di niente, solo che stavo entrando nel suo mondo di strane psicosi e fantasmi. La luce pallida del distributore automatico era l’unica che gli illuminava male il viso. Mi sono resa conto allora di come, guardandolo, scavavo lentamente i suoi occhi per capire di più, proprio come faceva lui. Lessi negli occhi la paura per loro due, la sua famiglia. Gli occhi spaventati e la bocca che urlava pianissimo. È strano, riusciva ad urlare soltanto con i muscoli del viso, con la bocca, con le mani e le braccia nude che si muovevano violente.
Il sangue gli stava a fior di pelle quella notte, come se non volesse starci chiuso nelle sue braccia aggressive. Le vene erano in rilievo sotto l’inchiostro della chiave tatuata sull’avambraccio. Non hai mai voluto dirmi che cosa apre quella chiave distorta che si porta addosso. Altro punto interrogativo sopra il suo sguardo. Mentre continuava a sfogarsi con la voce faceva pianissimo. Aveva il volto contratto, anche i contorni venivano sottolineati dalle piccole vene che tentavo di scappare. Mi faceva paura. Il volto: gli si induriva la linea degli zigomi e la mandibola; la fronte gli restava distesa in una maniera innaturale. E la bocca si muoveva in fretta.
E tutto questo l’ho lasciato inciso nella testa per mesi, anche se l’ho pensato in un attimo. Era quello che avevo visto fare mille volte a lui. Quando mi sono decisa a farmi coraggio e descrivere con delle parole quelle poche frazioni di secondo in cui ho visto tutto questo, ho capito cosa mi volesse dire in quel locale ubriaco quando ci siamo conosciuti, parlandomi di come la fotografia sia insufficiente a descrivere la vita in divenire. Ho capito che c’è un mistero che lo avvolge, una specie di magia di un antico popolo delle Americhe che lo rende in grado di crescerti, sceglierti dall’odore lontano dalla pelle. Un mistero da pittore, un mistero da folle. Da folle che vede quello che la ragione ti nasconde.
Quella notte mi ha mostrato la sua vera follia, lasciandomi un cumulo di domande a bruciare: suo fratello perso nel tempo non aveva il controllo delle emozioni. Questo da quando è entrato in quel palazzo buio dove qualcuno ha scritto solitudine e pazzia. Anche di questo non mi hai mai detto altro che poche parole criptate. Qualcosa ho visto nel suo studio, disegni di finestre rotte e pareti grattate. C’è un disegno tra questi, un carboncino molto macchiato, dai bordi rovinati, che rappresenta soltanto una fibbia, di metallo, strappata via da una cintura, forse da uomo. C’è un po’ d’erba attorno, intuibile dalle linee sfumate e leggermente piegate dal vento, e nient’altro.
Gli ho chiesto di portarmici molto tempo fa, la prima volta che ho visto il ritratto di quella palazzina costruita nel Ventennio. Anche quel ritratto di macerie era un carboncino molto scuro. Quando gli ho chiesto di farmi vedere dal vivo quel posto, mi ha detto che mi avrebbe mangiato l’anima. Che l’intera città è capace di mangiarti l’anima se non stai attento a come spendi i soldi, a cosa metti in bocca, perché spesso le cose dalla bocca ti mangiano la testa.
Con quello che ho imparato da due anni a questa parte sono riuscita a risolvere ben poche delle domande che gli ho fatto. Di tutte le domande che gli ho fatto, negli occhi gliene ho letta soltanto una. Quel fratello di cui mi parlava quella notte, di cui non mi ha mai più parlato, di cui prima non mi aveva mai parlato, adesso non c’è più. Non c’è più nei suoi incubi, non c’è più nella sua vita. Una volta l’ho intravisto scappare dalla casa del mio maestro con stretto al petto una cartellina sottilissima. Forse il biglietto d’addio. Ho saputo dai suoi occhi che quell’ospedale che crolla fa crollare anche i suoi abitanti. Non dovrebbero esserci e l’edificio li fa impazzire per punizione. Quei grattacieli che piangono calcinacci sono rimasti impregnati dei loro abitanti legittimi e puniscono gli abitanti illegittimi con la disgrazia che ingiustamente aveva colpito i primi.
Pazzia.
Dagli occhi che piangono del mio maestro ho imparato che certi passi vanno fatti, in certe fasi della vita bisogna obbligatoriamente entrarci. Come nei palazzi scuri dei suoi carboncini. Qualcuno dovrà entrare a rompere la loro magia ctonia. Qualcuno dovrà entrare, impazzire e non morire bucato dalle siringhe che quel palazzo offre come pasto serale. Se non altro per tramandare agli altri il mistero dei visi scavati che il vecchio manicomio rigurgita.
O forse lui lo ha già fatto.

FINE

……….

In Una Sciarpa di Alice Vanni

Il testo che segue è ancora di Alice Vanni, Classe V Liceo Classicoco, 2015 / 2016, Istituto di Istruzione Superiore “G. Carducci” Volterra.
Il racconto, selezionato tra i dodici finalisti su oltre settecento opere nel Concorso nazionale “Scriviamoci. 20 anni nel 2020” che richiedeva testo narrativo e aforisma, è stato pubblicato sull’agenda “Scriviamoci 2016 / 17 (Giulio Perrone Editore, Roma). La premiazione è avvenuta al Salone Internazionale del libro a Torino, il 14 maggio 2016.

FINE

……….

IN UNA SCIARPA di Alice Vanni

29 dicembre 2017, Volterra
Dovrebbe essere una lettera questa. Come dicevano a scuola? “Caro piccolo amore,” avrebbe voluto la prof. di italiano. Non sono abituata a scrivere lettere. Da piccola ne ho scritta qualcuna, ma quando mi hai regalato la sciarpa che stringo, eravamo già passati agli sms ed alle chat. Ci provo lo stesso.
Sono tornata a casa per il Natale. Era poco meno di un anno che non tornavo, ormai Bologna è casa, qui le cose sono per lo più il passato o estranee. Non avrei voluto allontanarmi così tanto da queste colline, ma le persone che mi ero ritrovata attorno mi avvelenavano. E così ho cercato un rifugio sicuro tra letteratura e portici.
Mamma negli ultimi mesi ha smantellato la mia vecchia camera, così quattro anni di adolescenza stanno chiusi in un baule verde ai miei piedi. Ci sei anche tu. È la lampada di Aladino e lo scrigno di Pandora. Pensieri in agrodolce.
Mi sono esplose davanti una trentina di sciarpe che hanno trascinato con loro un centinaio di ricordi. L’ultima ad uscire è stata una sciarpa infeltrita di lana verde petrolio. Si è portata dietro il tuo viso e la tua lunga schiena pallida. Quando l’ho presa le mani mi bruciavano, ma stavo sorridendo.
Era il 31 dicembre 2013. Io avevo i capelli corti e tu non sapevi deciderti se fossi più bella o più forte con quel taglio. Mentre davi a me quella sciarpa, in un bigliettino hai chiesto al tuo caro dio la forza di starmi accanto. Ma io in dio non ci ho mai creduto e sono sempre stata più prepotente e aggressiva, e ti ho divorato amandoti. Nel mio tentativo di farlo.
Avevo sogni più grandi di adesso, più grandi di me, con te avevo sogni enormi. Poi un giorno questa Italia mi ha fatto lo sgambetto e mi sono ritrovata con le mani sbucciate e i sogni a pezzetti. Sogni più piccoli, li ho realizzati tutti, lentamente. Sono dovuta scappare da qui per farlo e sotto il portico di via Zamboni li ho protetti dalla pioggia. Sono quasi la stessa che sette anni fa prendevi in giro per il naso da papera.
Ho imparato a scrivere come sognavo.
Ho imparato ad aspettare, come mi hai sempre detto di fare, ho la pazienza che mi mancava per stare con te.
Non ho ancora imparato a capire e tollerare tutto quanto, ma sono un po’ meno Lucy van Pelt di quanto i miei amici pensassero allora.
Ho imparato a non fare di nuovo gli errori che ho fatto con te.
Come quella volta che sommersa nella sciarpa petrolio mi cullavi, ed io ti ho respinto, perché pensavo che la vita fosse una cosa seria e non ci si potesse soffermare sulle smancerie. Arrogante credevo di salire su, diventare qualcuno di forte, essere protetta. Oggi nelle stesse sciarpe pesanti mi lascio cullare dall’Amore.
Ho imparato che la vita è leggera, come cantava Brunori sei anni fa. “Vivere come volare”.
Ho imparato da te ad amare e per questo ti ringrazio.
Adesso con questa sciarpa stretta tra le dita, vestita come ti descrivevo a sedici anni, i capelli lunghi sciolti come mi sognavi a sedici anni, mi accorgo che ti ho lasciato andare un infinito tempo fa. Adesso con quel che ci siamo donati viviamo le nostre vite da rette parallele, con a fianco amori diversi e più belli.
Questi oggetti rimangono, come tutte le carezze che mi conservo sulla pelle.
Siamo diversi, siamo di altri, ma la somma di tutti i piccoli oggetti che abbiamo seminato mentre cercavamo chi siamo, ecco quelli siamo noi stessi.
Non lo credevo al tempo in cui mi hai regalato questa sciarpa. Mettevo da parte le poche cose che mi lasciavi, mi attaccavo a quegli oggetti che erano stati tuoi come sei ti contenessero, nella speranza che anche quando tu non lo fossi stato più, rimanessi un po’ mio. La realtà che sento adesso è che quegli oggetti non sono parte di te, ma parte di me. Contengono me stessa, il mio tempo di vita.
L’identità di ognuno di noi. Parte della mia ormai sei anche tu.
La sciarpa color verde petrolio non è altro che ciò che mi ricorda che una volta hai giurato di rimanermi accanto. Non è altro che ciò che mi ricorda che quella promessa l’hai mantenuta, lasciandomi vivere quei novecentosessantadue giorni con te.
Gli oggetti sono la forma fisica del pezzo del mio cuore che tu hai costruito.
Ma mia mamma mi chiama, un altro amore mi aspetta di sotto in macchina, devo chiudere la sciarpa nel baule e scappare.
Sono ancora la donna che hai visto sbocciare, anche se completamente diversa.
Vivi come abbiamo sempre sognato.
Aforisma.
Spesso gli oggetti che lasciamo in giro passando per la Vita sono soltanto la materia che contiene certe emozioni”.

FINE

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A pranzo con Renoir di Gabriele Dipaolantonio

XXXIII  “Premio Firenze” di letteratura e Arti Visive promosso dal Centro Culturale Firenze-Europa “Mario Conti” – premio del “Fiorino d’oro” – rivolto ad artisti e letterati italiani e stranieri: finalista (tra i primi dieci selezionati su oltre 250 opere partecipanti).

A PRANZO CON RENOIR
di Gabriele Dipaolantonio, V Liceo Classico 2015 – 2016,
IIS “Carducci” Volterra

Un’altra notte passata in bianco. Il caldo di questi giorni ti si appiccica addosso e non ti molla per tutta la giornata, ti circonda, ti soffoca, ti schiaccia. Chi non è riuscito a farsi installare un condizionatore in casa è un condannato, e d’altra parte adesso è impossibile trovarne uno. Ecco, io sono uno dei tanti condannati, per l’appunto. La testa ti scoppia, le mani si informicoliscono. Ti prende talvolta una momentanea pazzia, incontenibile, frenetica. Più che pazzia, una smania, direi. E non ci puoi fare nulla, perché non sai neanche più cosa vuoi, e quei quattro o cinque secondi in cui non capisci più niente divengono forse gli unici momenti in cui riesci a non sentire il caldo. “L’Agosto più caldo dal 1880, l’Italia nella morsa del caldo” Grazie, me ne ero accorto.
In questo periodo gli unici posti in cui si riesce a respirare sono i centri commerciali ed i musei. Ah, non si erano mai visti tanti turisti e tanti clienti come quest’anno. Ma io sono puntualmente qui che arranco per il corso sotto questo sole di mezzogiorno, trascinandomi sotto i portici di una città deserta, divorata da una palla di fuoco che inghiottisce le punte dei campanili.
Sento a poco a poco qualcosa trafiggermi la schiena, le spalle mi bruciano… due grandi occhi neri mi trapassano da parte a parte. Qualcosa mi trattiene, sono come immobilizzato.
Quegli occhi…
L’afa però non risparmia il mio corpo, che si rifugia in un ritaglio di ombra tra due archi. Ma non posso fare a meno di cercare ancora quello sguardo. Mi accorgo allora del volto di donna stampato su uno di quei grossi cartelloni pubblicitari che tappezzano il centro. Mi sta dicendo di una mostra d’arte, ora, ad Agosto, in città.
Finalmente riprendo possesso di me; e corro. L’orologio segna le 13.00. Corro. O forse scappo? Ma da cosa? Volto l’angolo, imbocco la via del Palazzo delle Poste. Poco a poco rallento il passo, mi manca il fiato. Sento il sudore scendere lungo la fronte, il viso, la schiena. Dentro la testa mi martellano i rintocchi della torre dell’orologio.
Non posso fare a meno di ripensare a quel che mi è appena successo, e non trovo che una ragionevole, per così dire, spiegazione: certo, allucinazioni! Tutta colpa di questo caldo infernale. Matto, sto diventando matto… e chi non lo diventa? Ma l’inferno non è questo, ah no. L’Inferno io l’ho in casa, letteralmente: un bel forno di 45 metri quadri, ed io sono il pollo arrosto.
Eppure un modo per evitare tutto questo c’è: la mostra. Altro che mostra d’arte, una bella esposizione di condizionatori.
Non appena varco la soglia della Pinacoteca mi trovo in un altro mondo. E due sono essenzialmente le cose che me lo fanno capire. Primo: nella distanza di un passo la temperatura si è abbassata di un rapporto Sahara – Polo (venti gradi sicuri – come minimo domani mi viene un attacco di broncopolmonite); secondo: ai colori appiccicosi di una città in liquefazione si è sostituito un bianco abbagliante, uno di quelli che ti trafigge gli occhi se non li socchiudi almeno un po’. Mi accontenterei pure di rimanere nell’atrio. E come non detto, mi viene incontro quella dei biglietti. A quanto pare non ho scampo, mi tocca pagare ed andare alla mostra. Se non altro è per una buona causa: la mia sopravvivenza.
Passo un paio di sale in cerca di uno di quei divanettini imbottiti di pelle nera. Ed eccone uno là, là in quel cantuccio che mi aspetta: ora è mio. Chiudo gli occhi.
Silenzio. Respiro. Finalmente un po’ di pace. Sulla faccia sento arricciarmi le labbra. Devo avere un bel sorrisetto di soddisfazione.
Mi accarezza leggermente la guancia una brezza fresca, poi sento a poco a poco l’aria farsi più frizzante, trascinandosi dietro come un odore di erba fresca, di tiepido sole primaverile. Ora qualcosa mi fa il solletico ai piedi. Apro gli occhi, ma sono costretto a tenere basso lo sguardo per i raggi che si riflettono sullo specchio brillantinoso della Senna. Una regata attraversa lenta il fiume e si nasconde dietro alle vele trascinate sull’acqua da un tiepido Zefiro. L’isola ha la voce dei bambini che si rincorrono dietro una palla o inseguono il loro cappellino. Le ragazze hanno il vestito della domenica e passeggiano a braccetto sotto la volta dei salici. Mi arriva ogni tanto un intenso odore di tabacco dolce.
Io invece me ne sto a riva a cercare il mio riflesso nell’acqua, laggiù dove l’isola si fa un po’ più avanti nel fiume. Poco distante da me anche una ragazza, che con il suo ombrellino e la gonna mandarino, si specchia nella Senna e si perde a rincorrere con gli occhi quei piccoli fazzoletti che a fatica sfiorano l’acqua. E per un attimo trova anche me, e i nostri riflessi si mettono a rincorrersi ognuno negli occhi dell’altro.
Mi giro di scatto, e mi ritrovo davanti quella dei biglietti che picchiettandomi sulla spalla mi avverte che la galleria chiude alle 18.00. Mi volto di nuovo, e mi accorgo solo ora della tela di Seurat che mi fissa appesa alla parete. “Grazie grazie, vado… stavo giusto andando”. E senza voltarmi attraverso in fretta le sale della Pinacoteca, scendo, o meglio, salto, la scalinata e mi lancio fuori nel cortile. Da qui i venti minuti che mi separano da casa sembrano ridursi ad una manciata di secondi.
Mi guardo allo specchio del bagno: la mia faccia va dal pallido al rosso intenso; gli occhi sgranati, le labbra secche ed un sapore insopportabile di sangue nella gola. Le braccia e le gambe mi tremano ancora, un dolore lancinante mi strazia il fegato e la milza. A fatica riesco a buttare giù due sonniferi, il tutto dopo essere riuscito a centrare la bocca.
Mi sveglio con un gran mal di testa che mi martella le tempie. Non mi ricordo di aver sognato niente, ma quello che è accaduto ieri me lo ricordo benissimo. E sinceramente, nonostante non mi spieghi precisamente che cosa mi sia accaduto, non riesco neanche a capire il perché della mia reazione. Del resto, come ho sperimentato io stesso, di questi tempi non è difficile che il cervello se ne parta per conto proprio. Mi sarà accaduto lo stesso: lo stress, il caldo, la differenza di temperatura, la corsa di poco prima… e devo anche riconoscere che un altro pomeriggio su quei divanetti non guasterebbe.
Non appena la ragazza dei biglietti di ieri mi ha riconosciuto, chissà perché non si è stupita di vedermi una seconda volta alla Pinacoteca. Questa volta mi addentro un po’ di più nelle sale, lasciandomi dietro i pennacchi di mille cappellini, una collezione di sguardi di tutti i nobili d’Europa, ballerine del Moulin Rouge e tanti cesti di mele e pere che si potrebbe sfamare un reggimento.
E poi mi blocco. La vedo. È lei, ancora lei, la ragazza dal vestito mandarino. Lei non mi ha visto: è lì alla staccionata in un angolo, avvolta nel suo blu scintillante, a guardare le coppie che ballano. Mi faccio avanti. La invito a ballare. Perché no? Lei non dice niente, si alza, mi scava ancora una volta gli occhi. Un valzer ci culla per la pista della Galette, mentre ci confondiamo nella folla tra cappelli di paglia e gonne color crema.
E mentre ci accompagna il cigolio del vecchio mulino, corriamo giù per la collina.
Ora, nascosti dal candido tulle delle ballerine, spiamo la lezione del signor Perrot, mentre lei, con i nastri che si è messa nei capelli, rincorre le note del pianoforte. Stasera ci sarà il debutto a teatro; magari potremmo andare a vederle.
Ci arrampichiamo per la cornice affusolata del quadro e saltiamo tra le ninfee del giardino di Monet. Ed immancabilmente lo troviamo lì che gioca con pennelli e colori, sulla veranda della grande casa colonica nascosto dalla tela da cui ogni tanto fa capolino. Per un poco restiamo sotto i salici a farci accarezzare il viso dalle foglie. I nostri occhi si illuminano nello specchio rosa del laghetto, sospesi sull’acqua sopra il ponticello.
E finiamo noi stessi per divenire i colori di quel giardino: due sfumature d’azzurro e giallo, il cielo ed il suo sole, di rosso, di verde, l’abbraccio di colori del pennello di Kandinskij.
E finalmente la bacio. L’abbraccio e la bacio, avvolti in una veste d’oro.
Nel turbinio del giorno mi rendo conto di essere digiuno dalla mattina, e veramente la fame inizia a farsi sentire. Ho deciso di tornare sulle rive della Senna, a Chatou, come quando tutto è iniziato, correndo gli occhi per inseguire le regate che sfrecciavano sul fiume. Sia quel che vuole essere tutto questo: un sogno, un’allucinazione, un inganno della mia mente, la pazzia. Non me ne importa. Adesso.
“Une table pour deux, monsieur, s’il vous plaît”

FINE

……….

Complementare di Gabriele Dipaolantonio

COMPLEMENTARE

di Gabriele Dipaolantonio, III Liceo Classico 2014 – 2015
Premio “Chiara Dei, 2014”

Una goccia scende lungo il vetro della finestra, si scontra con un’altra. Fanno la lotta, si rincorrono, si uniscono, il vetro vibra ad una folata di vento.
Giornata piovosa oggi, una cappa nera e grigia… come il mio umore, del resto. La giornata perfetta. La casa è vuota, nessuna voce, nessun calpestio, non c’è nessuno a parte me, è ovvio. Come è dolce il silenzio. Ma a chi può importare di una vecchia sola, sempre vissuta nell’angolo della vita, quella che non si è mai rifatta una famiglia nemmeno dopo tanti anni? La mia vita è proprio come quella delle gocce d’acqua, trasportate dal vento, lasciate andare finché non trovano il vetro di una finestra od il suolo che le fermi, in piena caduta.
E come se non bastasse oggi deve arrivare la badante, un’altra estranea che mi viene appioppata da quella che viene chiamata “la mia famiglia”, dicono, “per il mio bene”. Ma è ovvio che lo fanno per liberarsi di me, d’altra parte, sono un peso. Chi sarà questa volta, rumena, albanese, filippina? Non mi interessa, anzi, non lo voglio sapere… tanto sono tutte uguali, ed io sono sempre uguale per loro: una povera vecchietta, inferma, debole, fragile, “poverina, non c’è più di testa”, e mi trattano come una bambina. La cosa che odio di più.
Ecco, sono costretta ad interrompere i miei pensieri, c’è qualcosa che mi disturba…. Ah, suonano alla porta. Inizia la prigionia.
“Buonasera, sono Fatima, la signora…”
“Si, si lo so benissimo chi è.”
Risposta brusca, ma la cosa sembra non la tocchi. La squadro da capo a piedi: capelli biondicci, un po’ cotonati, grassottella devo dire, sulla quarantina. A primo impatto è tale e quale alle altre, niente di nuovo, già visto. Mi guarda anche lei, con quel sorrisino stampato sulla faccia, lo sguardo puntato negli occhi, ma non sembra così severo, piuttosto direi indagatore, curioso. Ma che cosa avrà mai da trovare in una come me?
“Che fa, non mi fa entrare?”
Mi sposto lentamente verso l’anta scura della porta. Lasciamo entrare il carceriere.
“Allora, signora Amalia, come sta?”
Mi chiede anche come sto? Annuisco. Silenzio.
“Ho visto entrando ha un bel giardino… ma anche la casa è bella vedo.”
“Si, si, le solite cose da dire”
Accenna un sorriso di imbarazzo. È un po’ tesa, non deve essere molto che si ritrova a guardare una vecchia.
“Che fai, vuoi restare dell’altro là impalata o vuoi vedere la tua camera?”
“Certo, certo sì!”
Mentre trascina le valigie per il corridoio non fa che sbattere contro le pareti. Ecco, ci mancava solo che mi capitasse una in grado di distruggermi la casa.
“Allora ora sistemo un po’ le mie cose e sono subito da lei, così possiamo cenare! Che cosa vorrebbe da cena, Amalia?”
“Io vado a letto, ho già mangiato. Tu fa’ quel che vuoi.”
La lascio lì, sola, piantata accanto allo stipite della porta tra le valigie. Sento che mi segue con lo sguardo, mentre sparisco nella camera da letto.
Eppure ho la strana sensazione che stavolta mi divertirò un po’… forse non è del tutto negativo che sia una delle sue prime volte. Se non altro, vista la sua già dimostrata goffaggine, avrò qualcuno che riempie il silenzio che regna per le stanze.
Per quel poco che ho fatto, giornata stressante devo dire: ho appena conosciuto Amalia, la signora da cui sono a servizio, un po’ scorbutica, ma si vede che lo fa apposta. È la mia prima volta a servizio ed è la mia prima volta in Italia, o meglio, la terza, anche se le altre due volte non valgono perché ci sono stata quando ero piccola con mia madre che veniva a lavorare. Devo essere sincera, questo mi è tornato molto utile, perché così ho imparato l’Italiano abbastanza bene.
Le necessità mi hanno spinto a tornare in questo paese: ho sulle spalle la mia famiglia, mio marito mi ha lasciato da pochi mesi, ed insieme gli introiti della famiglia. Non è semplice trovare lavoro nel mio paese, soprattutto per una donna, ed allora ho pensato di trasferirmi per qualche mese qua, lasciando i miei figli da mio fratello e dai nonni, prima di trascinarli in un altro mondo.
Devo dire la verità, ho paura. È il mio primo viaggio da sola e sono entrata in un paese che già agli occhi di una bambina pareva differente, ma adesso lo è ancora di più. Ho poi come l’impressione che quello che mi dicevano essere un lavoro semplice non lo sarà affatto: a detta di molte mie amiche che si sono buttate in questo giro, questo dovrebbe essere solo un lavoro, l’unica cosa da fare “star dietro per lo più a dei vecchietti rimbambiti”. Penso proprio che la signora Amalia non corrisponda a quell’ideale di vecchietta che si è fatta la gente, ed anch’io non voglio fare altrettanto, farmi classificare in quella massa di persone che la gente evita e rifugge etichettata come “le badanti”. Sarà pure un lavoro, ma non voglio che si fermi solo a questo, voglio impegnarmi ed essere veramente una compagnia, un’amica. Sarà una sfida, ma del resto, tutta la vita è una sfida.
Cos’è questo fracasso? Pentole e ferraglia? È arrivato l’esercito in cucina! Ah no.. deve essere quella nuova. Com’è che si chiama? Fatima, ah già. E che ci fa già in piedi? Sono… le sei del mattino? Devo dire che ad ora si dimostra volenterosa per lo meno.
Cerco le pantofole, dove le ho messe ieri sera? La vestaglia l’ho già indosso, non mi manca che andare a vedere cosa combina quella. Mi ci vuole sempre di più a percorrere il corridoio, deve essere quella famosa vecchiaia di cui parlano tanto: a forza di chiamarla, sta arrivando davvero. Il tempo di mettere il piede in cucina….
“Buongiorno Amalia!”
Le do un’occhiata di traverso, “Buongiorno” e riabbasso il capo.
Mi guardo in giro, cerco di capire che cosa stesse combinando fino ad un attimo prima. Piantata sulla porta, riguardo di nuovo lei.
“Sei mattiniera, vedo. Che cosa ci fai già alzata?”
“Ieri sera non ho avuto modo di parlare neanche un po’ con lei, così pensavo che stamani le avrei potuto preparare la colazione, e magari mangiare insieme a lei, approfittandone per parlare un po’, forse. Ho fatto male?”
“Fa’ ciò che vuoi, ma la prossima volta evita di fare tutto quel baccano di prima mattina magari” le dico con una smorfia.
Mi aspettavo che vedendomi un po’ stizzita si facesse da parte e mi lasciasse in pace a crogiolarmi nella mia solitudine, invece non si perde d’animo e si mette ai fornelli.
Non me l’aspettavo proprio, pensavo di non potermi più stupire ormai. Già il fatto che voglia parlare con me… Senza contare che per farlo si è alzata all’alba… si interessa a me più di quanto dovrebbe farlo, vuole conoscermi. Adesso le ho viste proprio tutte.
Mi siedo al tavolo, cerco di seguirla di nascosto nelle sue azioni, ma devo dire che sono abbastanza curiosa di vedere che cosa vuole combinare. Non l’avrei mai detto, veramente. Ci sono piatti e posate, sembra apparecchiato per pranzo… ma cosa le è venuto in mente di fare?
“Eccomi! Eccomi! Le ho preparato una cosa speciale, è un dolce che la mia famiglia si tramanda da generazioni. Si chiama Ecler! Ho visto che qui in cucina aveva un sacco di ricettari, allora ho pensato che forse le piaceva molto cucinare e volevo farle assaggiare qualcosa che proviene dal mio paese, così anche per conoscerci e scambiarci qualcosa… no?”
Con gli occhi vedo che cerca la mia approvazione, e quell’appiglio che probabilmente l’avrebbe potuta mettere in contatto con me.
Mi serve una specie di sfoglia farcita, profumata, riconosco la cannella ed il cioccolato. Balletta un po’, si stropiccia le mani. È agitata, per lei è una prova di fiducia, per conquistare la mia, me ne sono accorta… ma certo le farò capire che non è così semplice. Anche io mi sono accorta che non è come tutte le altre, l’ho capito bene. Ma è anche bene, prima di buttarsi, vedere cosa c’è sotto forse.
All’aspetto non è per niente male. Scricchiola la sfoglia sotto la forchetta. Ne assaggio un boccone. Lei mi segue con gli occhi. Devo essere sincera, mi diverto a lasciarla tormentarsi un po’.
Però, non è per niente male. Ma non le voglio dare troppa soddisfazione, aprirei una porta troppo grande altrimenti.
“Allora, le piace?”
Passa qualche secondo di silenzio che pare interminabile.
“Uhm…”
Bella risposta, un grugnito piuttosto. Ma basta questo a Fatima per farle illuminare gli occhi, accompagnati dalle labbra che si increspano accennando un sorriso. Non finisco la fetta nel mio piatto, le ho già dato anche troppo spazio per oggi… Mi alzo dalla sedia e lentamente vado verso il salotto, prima però la sbircio da dietro l’angolo della porta… mi pare piuttosto contenta. Mentre mi allontano ripenso a ciò che è appena successo. Credo proprio che quando Fatima non ci sarà tornerò in cucina a vedere se è rimasta qualche altra fetta.
Fatima è tornata poco fa in casa. Dopo aver fatto tutte le faccende stamattina, subito dopo pranzo è uscita per andare al supermercato. Pensavo sinceramente che ci avesse quasi quasi preso casa là dentro. Dopo il dolce di stamani è stata presa da una tale euforia che mi ha detto che in vita sua non aveva mai visto una dispensa così vuota come la mia e che doveva subito andare a rimediare. È partita che aveva un arsenale di borse dietro, e non si è smentita: è tornata che erano tutte piene.
Ormai ha preso possesso della cucina; del resto cerca di non lasciarsi scappare quell’opportunità che gli si è aperta oggi, e la capisco, con una come me…
La serata passa in silenzio, credo non voglia forzare l’equilibrio creatosi e del resto io non ho tanta voglia di parlare, credo l’abbia capito ormai. Forse le parole non ci sono, ma i suoi occhi parlano più che mai: mi guarda, mi cerca, nemmeno una foto mi avrebbe mai catturato come sta facendo ora lei, ed io la lascio fare, ma sto attenta a non incontrare mai il suo sguardo.
Oggi ho deciso di tentare la sorte, e la sorte ha deciso di sorridermi per fortuna. Come pensavo, Amalia è tutt’altro che una vecchietta senza testa, ma si nasconde dietro una barriera che apparentemente è impenetrabile ed inattaccabile, costruita, ho paura, in tanti anni di dolori e sofferenze. Sicuramente la sua vita non deve essere stata facile per farla chiudere così come un riccio. Eppure penso che stamani abbia incominciato a muoversi qualcosa. Forse quel muro non è così spesso e resistente come pare dall’esterno, ma bisogna stare attenti: smontarlo pezzo dopo pezzo, aprendo piano piano una breccia sempre più grande. Togliere il mattone sbagliato significherebbe far crollare il muro tutto in una volta, travolgendo e distruggendo anche quello che protegge.
Domani mi aspetta una giornata impegnativa: ho come l’impressione che Amalia chiudendosi in se stessa si sia chiusa anche fisicamente dentro la propria casa, slacciando ogni tipo di rapporto con il mondo esterno e limitando le proprie uscite forse a qualche momento sul balcone del salotto. Domani voglio portarla fuori, nel giardino davanti casa e perché no, potremmo approfittarne anche per fare una passeggiata lungo il viale. Chi sa che incontrare qualche vecchia conoscenza non le faccia tornare il sorriso? Mi affido quindi ancora alla Fortuna, sperando che non si rovini tutto con un passo troppo avventato.
Questa Fatima è più sveglia e tenace di quanto pensassi… e vedo anche che ha capito che mi è piaciuta la colazione di ieri, perché altrimenti avrebbe lasciato quel bel vassoino fumante di brioches sul tavolo? Furba, ah, mi vuol prendere per la gola!
Ma..ma lei dove è andata a finire?
“Signora Amalia! Signora!”
Ma dov’è?
“Ben alzata, buongiorno!”
Ma dov’è andata? Non vorrà mica che mi metta anche a giocare a nascondino! Mi guardo in giro perplessa. Eppure in cucina non c’è.
“Amalia, venga qua!”
Mi pare che la voce provenga da fuori. Mi sporgo dalla finestra che guarda sul giardino. Ecco dove si era cacciata! Ma cosa le è venuto in mente? Vado svogliatamente verso la porta. Prendiamo il bastone, il giardino è sempre stato pieno di buche.
Apro.
Mi lascio investire dal timido sole primaverile. Mi fermo sulla porta. Aspetto. Mi ero quasi scordata come cantasse il vento tra gli alberi. E quell’odore di terra bagnata, ed erba, che si intreccia con il profumo delle prime violette. Chissà da quanto tempo che non sono più uscita.
Ma guarda te… ha tirato fuori il vecchio tavolino e le poltroncine di vimini… è un miracolo che dopo trent’anni in quel capanno stiano ancora in piedi. Le ha sistemate sotto il pergolato, e lì mi aspetta con la colazione e quel suo solito sorriso, un sorriso che io purtroppo ho perso da anni.
Mi scosta la sedia, mi fa mettere a sedere. Era davvero tanto che non venivo in giardino, mi fa quasi tristezza. Devo rimettere qualche fiore, proprio come i vecchi tempi. Interrompe il mio fiume di pensieri la sua voce.
“Allora, cosa ne dice?”
“Una bella giornata oggi. Effettivamente mi faceva bene un po’ d’aria.”
Vedo il suo sorriso allargarsi sempre di più, e gli occhi che guizzano di gioia.
Devo dire la verità, mi stupisco perfino io di me stessa, per la prima volta sono riuscita a dirle più di tre parole che non sono messe solamente in fila e buttate là.
“Allora, vogliamo fare colazione?”
Annuisco.
Non parliamo molto, ma tra noi non c’è più neanche il silenzio. Non saprei come definirlo, forse un filo invisibile, un’intesa… comunque sia, un qualcosa.
Abbiamo finito colazione entrambe, ora ci godiamo l’aria fresca e quello spicchio di sole che filtra attraverso la cupola di foglie da troppo tempo lasciate crescere senza forma. La vedo che armeggia nella grossa borsa che ha accanto a lei, tira fuori un panno, poi un aghetto, di quelli da uncinetto mi sembra, e un grosso gomitolo bianco.
“Non le dispiace mica se lavoro un po’, vero?”
“No, no, fa’ pure.”
La vedo che muove velocemente le dita attorno al filo, lo intreccia, lo rigira, lo tira con l’aghetto, e dà vita ad un intricato ricamo che aggiunge volta volta ad un lungo merletto che le spunta dall’altro lato della borsa. La guardo per un po’ di tempo, cercando di capire come faccia a creare quella trina un po’ arricciolata e fitta di disegni floreali. Nonostante la mia certa esperienza in questo campo, devo essere sincera, non riesco a pieno a seguirla, e la curiosità mi vince.
“Dimmi, Fatima, cos’è questo merletto che stai intrecciando?”
“Oh, le piace?”
Annuisco con la testa. “Non lo avevo mai visto, e tu mi sembri piuttosto brava.”
Mi ringrazia con i suoi occhi. “Lo sto facendo per il corredo di mia figlia, quando sarà grande e si sposerà!”
Ed in poco tempo iniziamo a parlare, e mi sembra che sia tutto normale, e quel divario che avevo frapposto tra me e tutti gli altri non sia mai esistito.
E così mi racconta che saper fare il merletto nel suo paese è un’arte di grande pregio, che viene tramandata con il massimo segreto di madre in figlia, e così tra le nipoti e via via. In Romania non ha un nome preciso perché ogni regione lo definisce in maniera diversa, ma quello più usato è sicuramente Laseta, anche se poi nel mondo occidentale si è diffuso con il nome di Macramè Romeno.
Ed ogni parola che dice mi fa riaffiorare vecchi ricordi che erano sepolti da tempo innumerevole nell’oblio della mente, di quando anche io ero bambina, e la mamma ci insegnava, a me e le mie sorelle, a ricamare ed a fare uncinetto, e la vedevo, anche in quelle sere in cui la Guerra portava via la luce, alla finestra della cucina che sferruzzava sotto la flebile luce della Luna biancastra. E glielo racconto, e le dico delle mie sorelle, dei mie fratelli, della Guerra che avevo vissuto fin troppo da vicino. Mi sento come in balia di un fiume in piena che non posso controllare, un gorgo che mi travolge, le emozioni ed i ricordi che da troppo tempo tenevo repressi.
“Sono arrivata da poco tempo in Italia, sarà più o meno una settimana adesso. Il mio paese è molto diverso dal vostro, partendo dai paesaggi, la religione, la famiglia, le abitudini… un mondo completamente differente. Io vivo in un piccolo villaggio di campagna, ma la città, anche se ci vado poco, non è così distante. Siamo una famiglia numerosa e viviamo tutti insieme sotto lo stesso tetto, zii, nonni, nipoti, cosa che per quanto ho potuto vedere fin da piccola, quando seguivo mia madre che per mesi veniva a lavorare qui, non esiste più in Italia. E mi creda, molti pensano che vivere con una “famiglia allargata” sia una tortura, e non gli do torto, perché davvero alcune volte manca lo spazio, ma non si rendono neanche conto che se una famiglia è unita, non manca mai una mano che ti aiuti quando hai bisogno.”
“Se mi dici questo, perché allora sei partita dalla tua famiglia e sei venuta qui?”
“Vede, Amalia, nel mio paese non è così semplice che una donna, specialmente se sola, riesca a mantenere la propria famiglia. Anche se può contare sempre sui fratelli, i genitori… uno stipendio è a fatica sufficiente per provvedere ai bisogni di una di famiglia, e la priorità, poi, è sicuramente la propria. Mio marito quattro mesi fa ha avuto un incidente sul lavoro. Di punto in bianco mi sono ritrovata sola ad affrontare la vita e tutte le sue spese, che una donna con famiglia nel mio paese, pur godendo di una notevole libertà ed indipendenza rispetto a molte altre anche dei paesi confinanti, non riuscirà mai a sostenere. Ho quindi deciso di…”
Fatima si ferma all’improvviso e fissa il suo sguardo su di me. Ancora non capisco perché, ma mi basta poco per rendermene conto.
Mi sono bastate quelle sue poche parole per farmi rivivere in un attimo tutta la mia vita, che mi sfreccia davanti agli occhi come un treno. I ricordi si trasformano in lacrime, gli occhi si fanno lucidi, non comando più le parole, che scivolano da sole senza che io lo voglia.
Le sto raccontando tutto, di me, della mia vita, di quel giorno d’Inverno in cui il mio Alberto mi fu portato via in un lampo dal treno in corsa, alla stazione, lui che era ferroviere, mentre dal cielo scendeva la neve. Del figlio che abbiamo aspettato a lungo e che non siamo mai riusciti ad avere, del momento in cui mi sono chiusa in me stessa e non sono mai più uscita dalla cortina di ferro perché niente mi facesse più male.
Ma chi è questa per capirmi? Chi è per meritarsi di conoscere il mio dolore? Perché le sto dicendo tutto? Dopo anni che con fatica ero riuscita a mettermi tutto dentro, adesso arriva lei che distrugge ogni cosa!
La mia espressione deve essere cambiata, non so se forse le urlo anche qualcosa, fatto sta che così d’un colpo lo sguardo di Fatima viene travolto dalla mia rabbia che la colpisce, indifesa, lasciandola inerme, sola, distrutta da una reazione che non sia aspettava, e neanche io.
Non ci siamo rivolte la parola tutto il pomeriggio, e credo che anche la serata non sarà differente dal resto della giornata. Ogni qual volta la vedo ho paura di guardarla negli occhi, di incrociare il suo sguardo, così abbasso la testa e vado avanti, stando attenta a non incrociarla di nuovo. Ora si aggira per le stanze, la vedo, stanca ed agitata, ma non si arrende ancora a quella rabbia che non ha finito di uscire. Ogni tanto si sofferma su qualche vecchia foto, sembra toccare il ricordo imprigionatovi con la dolcezza della nostalgia, poi un istante dopo quasi getta la cornice con disprezzo. Trascina le dita su un mobile, una parete, poi riparte. Non so cosa le sia preso stamattina… tutto sembrava andare per il meglio, ma probabilmente proprio quel dolore in cui si era tanto chiusa è arrivato troppo all’improvviso e violentemente, e quando se ne è accorta l’aveva travolta già prima che si preparasse a difendersi. Temo che se la situazione non cambierà, dovrò lasciare la casa. Forse è l’unica soluzione. Mi affido al tempo.
Ecco. Ascolta il silenzio, quel silenzio che prima bene conoscevi. Ora la casa ne risuona, sembra una stupidaggine, ma davvero anche il silenzio ha una sua musica, e mi ero scordata quanto fosse dolce. Oggi che quella ha il giorno libero, finalmente posso stare un po’ in pace, come ai vecchi tempi, e fare ciò che voglio. Veramente, mi mancava questo vuoto… più tempo per riflettere, più calma per fare le cose, il tempo non corre quando sei da sola.
Oggi ho un’intera giornata per me, da sola con il mio silenzio. Eppure c’è qualcosa che non va, non riesco a godermelo come una volta. Qualcosa mi opprime, non si stacca da me, quasi mi fa paura. Non mi ricordavo quanto il tempo passasse lentamente. Non mi ricordavo quanto fosse vuoto il silenzio. Non mi ricordavo quanto fossi sola.
Suonano alla porta. È lei, Fatima. Nessuna parola, al loro posto quel silenzio che ora tanto mi schiaccia. Ma è proprio questa la nostra forza, che non ci servono le parole: entrambe abbiamo già capito tutto dai nostri occhi, e sappiamo che da ora in poi possiamo contare l’una sull’altra, e che ognuna avrà come una seconda famiglia a cui appoggiarsi.
In fondo il pensiero che avevo fatto sulle gocce d’acqua quel giorno in cui la mia vita è stata travolta non era così sbagliato, solo che mi ero concentrata sulle gocce sbagliate. Forse prima non avevo considerato che tra tutte quelle che sono in caduta libera, ognuna, diversa dall’altra, ha un destino differente: qualunque sia la loro fine infatti, la finestra, la parete di una casa, una foglia o un fiume, non è detto che tutte vi arrivino da sole, ma che poco prima qualcuna abbia la fortuna di trovare quella goccia complementare a cui unirsi, e formare così un’unica grande goccia, indivisibile, perché ogni parte dell’una ora appartiene anche all’altra. Io, adesso, sono parte di quella goccia, e l’altra è Fatima. Dove arriveremo non ha importanza.

FINE

……….