“ADDIO KEFIAH, viva il fucile delle combattenti curde” e “CURDI. Quel fascino del combattente che offusca le bandiere arcobaleno”; scritti di Umberto Giovannangeli con poesia di F. Mancinelli , ‘Iniziativa’ per i Curdi a Pontedera e “Un pressante interrogativo”; a cura di Piero Pistoia e Grabriella Scarciglia

POST in via di costruzione…e forse temporaneo!

KEFIAH è un copricapo patriottico dei Palestinesi

QUALCHE IDEA DI POLITICA CULTURALE SULLA CRONACA RELATIVA AL MEDIO ORIENTE CALDO: scritti ripresi da newsletter di Ytali.com in parte rivisitati e riorganizzati; come da  e-mail ricevuta il 23 ottobre 2019.

Political Map of the Middle East And Asia Isolated On White.

Inseriamo la mappa fisica….porzione ripresa da Atlante Geografico De Agostini 2006

I confini riportati sulla carta fisica si riferiscono al 2006; data la ‘turbolenza’ di questa zona, oggi possono essere leggermente diversi e comunque in continuo cambiamento

Per leggere lo scritto di Giovannangeli, “ADDIO KEFIAH, viva…”,  cliccare sul link seguente:

COMBATTENTI CURDI

Umberto De Giovannangeli, da inviato speciale ha seguito per l’Unità gli eventi in Medio Oriente negli ultimi trent’anni. Collaboratore di Limes, è autore di diversi saggi, tra i quali “L’enigma Netanyahu”, “Hamas: pace o guerra”, “Al Qaeda e dintorni”, “L’89 arabo”, e “ Medio Oriente in fiamme”. Ha un blog sull’Huffington Post

Una poesia di Franca Mancinelli

UN COLPO DI FUCILE

un colpo di fucile
e torni a respirare. Muso a terra,
senza sangue sparso.
Cose guardate con la coda
di un occhio che frana
mentre l’altro è già sommerso, e tutto
si allontana. Gli alberi
si piegano su un fianco
perdono la voce in ogni foglia
che impara dagli uccelli
e per pochi istanti vola.

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Gli amici dei Curdi? Le montagne e la Rojava è in pianura.

Le fotografie ritraggono Viyan Antar, combattente delle YPJ, diventata simbolo dell’impegno delle donne nel Rojava e caduta in combattimento nel conflitto contro l’ISIS.

Curdi. Quel fascino del combattente che offusca le bandiere arcobaleno

Sentirsi parte di un popolo coraggioso, tradito da tutti. Condividerne le ragioni, lo spirito, il sacrificio. Ed essere disposti a pagarne il prezzo più alto: quello della vita. È la fascinazione delle nuove “Brigate internazionali” combattenti nella regione del Rojava.
scritto da UMBERTO DE GIOVANNANGELI 17 Ottobre 2019
Le bandiere della pace spariscono. Per far posto a un mito che avanza: quello del combattente. Una storia che non nasce oggi, basta tornare ai tempi del mito del “Che”, ma che oggi si ripropone nel sostegno alla lotta dei curdi siriani. Un fenomeno minoritario, si dirà. Ma comunque significativo e in crescita. Sui social, nelle piazze… Sentirsi parte di un popolo coraggioso, tradito da tutti. Condividerne le ragioni, lo spirito, il sacrificio. Ed essere disposti a pagarne il prezzo più alto: quello della vita.

È la fascinazione delle nuove “Brigate internazionali” combattenti nella regione del Rojava, a fianco dei curdi. Senza memoria non c’è futuro. Era il 18 marzo quando la notizia della morte di Lorenzo Orsetti sconvolse l’Italia intera. L’anarchico fiorentino, 33 anni, si era arruolato con le truppe curde delle Unità di protezione dei popoli (YPG), impegnate nell’offensiva nell’est della Siria con le Forze siriane democratiche (FDS) e sostenute dalla coalizione a guida statunitense.

Lorenzo era stato ucciso nel corso di una battaglia a Baghuz, ultima roccaforte dello Stato Islamico in Siria prima della capitolazione finale. Di lì a qualche giorno infatti Daesh sarebbe stato sconfitto nel paese. Alessandro, Annalisa e Chiara Orsetti, familiari di Lorenzo, hanno scritto una lettera aperta:

Lorenzo, nostro figlio e fratello, è morto il 18 marzo 2019 in Rojava combattendo a fianco dei curdi e delle forze confederate della Siria contro l’ISIS e gli ultimi resti di califfato. La sua storia, la storia di un giovane che partendo da Rifredi aveva deciso di lasciare tutto, la sua città, casa, lavoro, famiglia, amici… per sostenere il popolo curdo in questa lotta ha emozionato molte persone. Vi scriviamo per chiedervi: volete abbandonare chi ha combattuto l’ISIS? Lorenzo è stato riconosciuto come un esempio di partigiano internazionalista e antifascista, che ha scelto da che parte stare e di schierarsi concretamente andando a combattere dove c’era bisogno di lottare per sradicare il fascismo che in quelle aree si stava affermando nelle forme dell’Isis e delle forze che lo sostengono. Attraverso la sua scelta di vita e la sua morte ha fatto conoscere a tanti la realtà che si sta costruendo nel Rojava, nella zona nord-est della Siria, dove la democrazia che nasce dal basso, fondata sul rispetto delle diversità sociali e culturali, per una parità reale tra uomo e donna, sulla autogestione, sulla economia sociale si sta affermando.
Non tutti forse lo sanno, questa realtà si chiama Confederalismo Democratico ed è un laboratorio sociale che nasce dalle idee di Ocalan, leader curdo del PKK imprigionato da 25 anni nelle prigioni turche, senza il minimo rispetto dei suoi diritti e delle sue garanzie. È un esempio di coesistenza tra i popoli e quindi porta pace e sicurezza in un’area sociale così instabile e travagliata, scossa da attentati, conflitti, stragi… Ora questa realtà, costruita col sangue di oltre 11.000 curdi e 36 volontari internazionali, è minacciata e potrebbe essere distrutta. L’esercito turco e i gruppi paramilitari che Erdogan sostiene nell’area – che non sono altro che un altro modo con cui l’ISIS prova a riproporsi – si stanno preparando ad attaccare il Rojava per eliminare la rivoluzione curda e tutto quello che rappresenta. Questa aggressione militare turca si può ancora fermare, se c’è una mobilitazione generale.
Vi chiediamo: se abbiamo pianto per Lorenzo riconoscendo la bellezza del suo gesto davvero non vogliamo fare nulla per impedire questa nuova guerra? Abbiamo ancora voglia di scendere in piazza, protestare, gridare il nostro sdegno e la nostra rabbia indicando i mandanti e le colpe, mostrando la nostra voglia di un mondo più giusto e umano? Il Comune di Firenze prenderà posizione? E la Regione Toscana?
Tutto serve per fermare questa aggressione e serve ora. Lorenzo ha combattuto a Afrin nel 2018, dove sono stati migliaia i morti causati dall’invasione turca: vogliamo continuare a sostenere Erdogan, l’esercito turco e l’Isis in questa guerra ingiusta fornendo armi con le nostre fabbriche e soldi dell’Unione Europea per non aprire il corridoio balcanico ai migranti?
Molti hanno pianto per Lorenzo-Orso Tekoser combattente colpiti dalla sua morte, ma ora potrebbe morire nuovamente e con lui tanti giovani curdi e altri popoli che vivono nel Rojava. Non facciamolo morire nuovamente, facendo morire gli ideali e la causa per la quale si è sacrificato. Lorenzo ci ha mostrato che nessuna causa è così lontana e così estranea alla nostra vita e che spesso è questione di scelte.

La morte di Lorenzo Orsetti aveva profondamente emozionato migliaia di persone anche per la capacità che il giovane ebbe di esorcizzarla con una lettera-testamento pubblicata dopo il decesso:

Ciao, se state leggendo questo messaggio significa che non sono più in questo mondo. [Lorenzo Orsetti continuava con parole di speranza e coraggio piene di ironia:] Be’, non rattristatevi più di tanto, mi sta bene così. Non ho rimpianti, sono morto facendo quello che ritenevo più giusto, difendendo i più deboli e rimanendo fedele ai miei ideali di giustizia, eguaglianza e libertà.

E ancora:

Quindi, nonostante la mia prematura dipartita, la mia vita resta comunque un successo e sono quasi certo che me ne sono andato con il sorriso sulle labbra. Non avrei potuto chiedere di meglio. Vi auguro tutto il bene possibile e spero che anche voi un giorno (se non l’avete già fatto) decidiate di dare la vita per il prossimo, perché solo così si cambia il mondo. Solo sconfiggendo l’individualismo e l’egoismo in ciascuno di noi si può fare la differenza. Sono tempi difficili, lo so, ma non cedete alla rassegnazione, non abbandonate la speranza, mai! Neppure per un attimo. Anche quando tutto sembra perduto e i mali che affliggono l’uomo e la terra sembrano insormontabili cercate di trovare la forza e di infonderla nei vostri compagni. È proprio nei momenti più bui che la vostra luce serve. E ricordate sempre che ogni tempesta comincia con una singola goccia. Cercate di essere voi quella goccia. Vi amo tutti, spero farete tesoro di queste parole. Serkeftin. Orso, Tekoser, Lorenzo.

Di queste brigate internazionali faceva parte anche Giovanni Francesco Asperti, 53 anni, originario di Ponteranica, alle porte di Bergamo, sposato e padre di due figli (13 anni il ragazzino, 14 la ragazzina). I miliziani curdi, sul loro sito, hanno reso noto che l’uomo, conosciuto con il nome di battaglia di Hiwa Bosco, è rimasto vittima di uno “sfortunato incidente mentre era in servizio a Derik”, il 7 dicembre 2018.

Sul sito della milizia, Unità per la protezione dei popoli (YPG), si spiegava che “Hiwa Bosco” era uno delle

centinaia di rivoluzionari che si erano uniti alla lotta contro l’Isis nella regione curda di Rojava e nel nord della Siria [e], durante tutta la sua vita nella lotta di liberazione, ha dato l’esempio di una vita rivoluzionaria.

Il sito pubblica anche la foto di Asperti.

Volontari da tutta Europa si sono uniti ai curdi nella lotta contro l’Isis a partire dal 2014. ytali.com ha provato a scavare nelle storie di alcuni di loro: storie diverse, età diverse, ma una comune ricerca di senso, di sentirsi parte di una comunità cosmopolita che abbraccia la causa del più debole.

Anna di Lews, Sussex, morta sotto un bombardamento turco

In questa scelta di campo, non c’è niente di religioso, tanto meno di “jihadista”. Combattono, certo, ma non hanno il profilo dei foreign fighter che hanno ingrossato le fila dell’ISIS. Non sono animati dall’odio, non intendono imporre uno stile di vita totalizzante, non sono alla ricerca di un riscatto sociale o in fuga da una vita di stenti ed emarginazione. Niente di tutto questo è presente nella vita di Asperti. L’orizzonte è quello della libertà.

La Brigata internazionale ha combattuto con le forze speciali curde sul fronte di Raqqa, dove si era specializzata in assalti notturni. Nell’estate del 2017 contava su una decina di volontari italiani. Fra loro c’era anche Claudio Locatelli, di Curno, in provincia di Bergamo, che ha espresso il suo “dolore dovuto a ogni combattente che ha scelto la via del campo”.

Una battaglia in cui, in questi anni, sono morti al fianco dei siriani e dei curdi decine di giovani europei. Insieme a Locatelli sono infatti altri 17, comprese due donne, gli italiani considerati in forze allo YPG.

Da un mese civili e miliziani curdi sono sotto attacco della Turchia e delle milizie islamiste sue alleate, il governo turco sta cercando di cancellare chi ha combattuto Daesh e lottato per una società egualitaria e antisessista, col suo esercito, il secondo della Nato, nostro alleato.

Così racconta all’Ansa quanto sta accadendo in Siria Gabar Carlo, nome di battaglia di un “combattente internazionalista” italiano. Gabar, come un monte del Kurdistan turco dove quarant’anni fa è cominciata la lotta di quel popolo, e Carlo per Carlo Giuliani: lui ha trent’anni, è di origini pugliesi, e la scorsa estate ha lasciato casa, lavoro e tutto il resto per unirsi come volontario combattente alle Unità di protezione del popolo, YPG, le milizie curdo-siriane in lotta contro l’ISIS e per la rivoluzione confederale del Rojava. Gabar è arrivato in Basur, Kurdistan iracheno, l’1 agosto 2017, per poi passare in Rojava due settimane dopo ed è tornato in Italia un mese fa.

Vorrei tornare dai miei compagni in Siria, ora però non è possibile. Ho portato la rivoluzione con me – dice – e voglio raccontarla per far sentire la voce di chi non ha voce.

In questo momento nelle YPG ci sono, secondo Gabar, cinque combattenti italiani, quattro uomini e una donna, sui fronti di Afrin, Deir Ez Zor e in Rojava. Gabar, invece, zaino in spalla e kalashnikov fra le braccia, era a Raqqa quando l’ex capitale dello Stato islamico è stata liberata.

Eravamo appostati di fronte all’ospedale – racconta – l’ultimo edificio nelle mani di Daesh, per trattare la liberazione dei civili ancora prigionieri.

Le forze siriane democratiche, SDF, hanno rispettato il cessate il fuoco – ricorda – gli uomini di Daesh no e dopo avere più volte mandato in fumo le trattative hanno lasciato andare gli ultimi civili, chiedendo di andare a sud, condizione che non è stata accettata. La notte fra il 13 e il 14 ottobre, l’ospedale è stato ripulito e Raqqa liberata.

Lì però si continua a morire per le mine – spiega – in strada e nelle abitazioni rimaste in piedi, dove i civili tornano e saltano in aria.

La prima volta che Gabar ha sentito parlare dei curdi era un bambino, nel 1998, quando il leader del PKK Öcalan era in Italia, lo aveva visto in tv, in uniforme militare.

Lo definivano terrorista, ma mio padre mi spiegava che era un partigiano e lottava per la liberazione del suo popolo.

Quella suggestione di bambino, anni dopo, si sarebbe trasformata in impegno concreto.

Durante l’assedio di Kobane ho capito che dovevo andare a guardare con i miei occhi la rivoluzione dei curdi, perché non riguarda solo loro.

L’obiettivo della costituzione di uno stato nazionale è stato superato da quello di confederalismo democratico, di autonomia e autogoverno dai paesi in cui i curdi vivono e convivono con altri popoli, arabi, assiri, siriani, turcomanni. Non si va lì solo per i curdi, sconfiggere i regimi è una lotta che riguarda tutti e ovunque.

Le donne, nel processo di riforma democratica, hanno un ruolo determinante.

Le unità di protezione del popolo, YPG, sono composte da uomini e donne che combattono e godono di grande autonomia, nella società e nel movimento. Nella società mediorientale, la centralità del ruolo della donna e la lotta al patriarcato sono davvero un fatto rivoluzionario.

La prima cosa che ti spiegano è che il fine della lotta è l’autodifesa del popolo, c’è un’etica alla base di ogni azione, nessuno va a combattere solo per uccidere, al primo posto c’è la sicurezza dei civili.

Fra i suoi ricordi c’è quello sul fronte di Deir Ez Zor, zona di pozzi petroliferi rimasti sotto il controllo di Daesh per giorni.

Il camioncino dei rifornimenti non poteva arrivare e scarseggiava tutto, ma quello che c’era si condivideva e con mezzo litro di tè si beveva in dieci, ora mi chiedo come fosse possibile e mi tornano in mente le parole di un compagno di Cipro, “quando tornerai a casa questo poco e questo sporco ti mancherà”, ed è vero.

Mi manca il senso di comunità, il fatto di entrare in villaggi dove i civili, disperati, ci davano tutto per sostenerci perché ti accorgi che ciascuno sente sulla propria pelle il dolore degli altri e c’è un rispetto inimmaginabile e nessun individualismo. È questo il senso della rivoluzione, di comunità e solidarietà, che ciascuno di noi porta con sé quando torna a casa.

Gabar traccia, infine, la differenza fra gli stranieri come lui che si uniscono alle YPG e i foreign fighter dell’ISIS.

Io non sono fuori legge per lo Stato italiano e le YPG non sono organizzazioni terroristiche; loro sono mossi dall’odio, sono pronti a uccidere e a morire per il risentimento, lo hanno dimostrato gli irriducibili di Raqqa, foreign fighter arroccati nell’ospedale fino alla fine e non per chissà quale principio o fede, molti di loro non hanno mai letto il Corano. Per loro combattere è uno strumento di rivalsa sociale, sono inebriati dal potere di ammazzare, stuprare, ed esaltati dalle droghe.

I volontari internazionalisti non combattono per soldi, nel modello di società e nel movimento curdo non servono per vivere, il necessario per il quotidiano ti viene dato.

Le YPG compiono operazioni di difesa e respingimento del nemico, di ricognizione e assalto per liberare porzioni di territorio; la guerra è per lo più tattica, non è azione continua, è fatta di noia e terrore.

Prima l’esperienza umanitaria, poi quella militare. A fianco dell’YPG contro l’ISIS. È la storia di Karim Franceschi, 29 anni, di Senigallia, padre italiano e madre marocchina, che ha combattuto più volte, senza aver avuto prima d’allora esperienze in campo militare. Ha imbracciato le armi nel 2015 come soldato semplice per liberare Kobane, dove si era addestrato per la prima volta, e nel 2016 come comandante, quando l’obiettivo era Raqqa, capitale del califfato nero. La sua storia di “combattente per la libertà” Karim l’ha raccontata in due libri: Il Combattente. Storia dell’italiano che ha difeso Kobane (BUR-Rizzoli) e il più recente Non morirò stanotte (Rizzoli), presentato nello spazio autogestito Arvultùra di Senigallia dove il combattente “Marcello” (era il suo nome di battaglia) ha passato diversi anni impegnato in attività culturali e solidali.

La mia esperienza militare è finita, non tornerò a combattere. Ora spetta alle popolazioni siriane e curde continuare a dare vita a quell’esperienza democratica per cui tante migliaia di persone hanno sacrificato la vita o tutti i propri averi.

In un’intervista, Karim, spiega il perché della sua scelta:

Perché guardavo questi uomini e donne che resistevano all’ISIS e mi riconoscevo nei loro valori. Nella loro causa ho trovato i valori della nostra democrazia, della Costituzione italiana, valori che ho ereditato da mio padre che è stato partigiano. Parlo dei valori della resistenza e della libertà.

I curdi, il popolo più grande al mondo senza uno stato. Repressi ma mai domi. Sono le milizie dell’YPG a essere accorse per prime a difesa dei yazidi sterminati dai nazi-islamisti dell’ISIS. Sono loro, i curdi in armi ad essersi opposti per primi all’avanzata dei miliziani di al-Baghdadi in Iraq e a condurre l’assedio alla “capitale” siriana del Califfato, Raqqa.

Nel nord della Siria, l’obiettivo è quello di “creare un sistema sociale autonomo”, come ha detto all’agenzia di stampa curda Firat Nesrin Abdullah, comandante dell’unità femminile delle YPG, che hanno portato avanti una dura lotta contro il Califfato.

Eppure, per il presidente della Turchia, restano il nemico principale, ancor più di Bashar al Assad. Un nemico da annientare, con o senza il via libera di Washington. E ciò che spaventa gli autocrati e i teocrati mediorientali non è la forza militare dei curdi (poca cosa rispetto all’esercito turco, il secondo dopo quello americano, quanto a dimensioni, in ambito Nato) ma la capacità attrattiva del modello politico e istituzionale che propugnano: un confederalismo democratico che ridefinisca in termini di autonomia (in particolare in Turchia e in Siria) gli stati centralistici ed etnocentrici. In un grande Medio Oriente segnato da una deriva integralista o da controrivoluzioni militari, il “modello curdo” va in controtendenza. Perché si ispira all’idea che più spaventa califfi, sultani, teocrati e generali: l’idea della democrazia. Un’idea per la quale vale ancora la pena battersi.

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In questa ottica, il 12-11-2019 a pag. 18 della La Nazione, abbiamo potuto leggere di una iniziativa a favore del popolo curdo da tempo travagliato e tradito, descritta nel trafiletto riportato sotto:

UN CALDO E PRESSANTE INTERROGATIVO RIVOLTO AI LETTORI DI QUESTO POST

Durante un intervento attuale della Croce Rossa Italiana insieme ad altre associazioni, come comunicato dalla televisione italiana (l’8-11-2019), è stato rimpatriato un ragazzino figlio di un genitore italiano e di una ragazza affiliata all’ISIS, uccisa in combattimento. Durante questa intervista gli ascoltatori hanno potuto scoprire che tale minore era internato in un grande campo di raccolta profughi dove erano attivi anche tre orfanotrofi con diverse centinaia di piccoli ospiti. Fu detto che l’interno di questo campo ospitava complessivamente 18000 (diciottomila) minori completamente soli in stato di forte disagio, forse con rischi probabili di diventare anche oggetti di tragici ed esecrabili eventi, per es., ora violati ora diventati ‘magazzini’ di organi per trapianti… e, nel migliore dei casi, combattenti, almeno potrebbero essere in grado di potersi difendere, all’occasione, da queste aggressioni disumane. Per non parlare della non remota possibilità che questo campo venga bombardato!

La domanda che fu rivolta dal giornalista direttamente ad un personaggio importante  della Croce Rossa, appartenente alla squadra di salvataggio, fu quella che anche noi rivolgeremo ai lettori di questo post <<Ma per gli altri 18000 minori abbandonati a se stessi, in questo attuale e drammatico teatro di battaglia fra Turchi e Curdi, come si pensa di intervenire?>>. La risposta fu ‘fumosa’.  Secondo noi dovremmo invece tentare di  procedere rapidamente prima dell’irreparabile, secondo criteri dettati dalla Globalizzazione!….. e il problema non si risolve con interventi singoli, pur meritevoli.